da BOLLETTINO DE "IL SINDACALISMO ARDITO", PATRIOTTICO, ANTIIMPERIALISTA, proletario - di Sandro Pescopagano.
Ennesima sentenza contro i datori di lavoro che da oramai quasi 10 anni si oppongono vanamente al riconoscimento del tempo di cambio tuta come orario di lavoro, quindi retribuito. E ancora una volta vincono i lavoratori e le organizzazioni sindacali (soprattutto CUB E COBAS, ma anche altri onesti delegati sparsi un po' a macchia di leopardo in tutte le organizzazioni sindacali) che chiedono a gran voce questo diritto. Al di là dell'ennesima sentenza favorevole, il riconoscimento è soprattutto un riconoscimento di un diritto, di un atto di giustizia che non è solo economico-salariale. La Cassazione mette d'accordo tutti i sindacati, che valutano positivamente la sentenza 19358/2010 in base alla quale il cosiddetto ‘tempo tuta', deve essere regolarmente retribuito dal datore di lavoro. Per questo gli Ermellini hanno respinto il ricorso di un'azienda contro una sentenza della Corte d'appello di Roma, la quale aveva riconosciuto tale diritto ai dipendenti. A perdere il ricorso alla Suprema Corte è stata la Unilever, colosso del settore alimentare e dei prodotti per l'igiene della casa e della persona, con quattromila dipendenti dislocati in cinque stabilimenti produttivi e 2,8 miliardi di fatturato in Italia.
Senza successo, Unilever ha chiesto alla Cassazione di annullare il verdetto con il quale la Corte di Appello di Roma, nel 2005, accogliendo la richiesta di alcuni dipendenti, aveva stabilito che fossero conteggiati in busta paga, per 45 settimane l'anno, i dieci minuti quotidiani impiegati per infilarsi la tuta. Contro la 'monetizzazione' dei minuti passati nello spogliatoio, l'azienda ha sostenuto che il 'tempo tuta' "non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro". I supremi giudici non hanno condiviso questa tesi. "Se è data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa (anche presso la propria abitazione prima di recarsi al lavoro), la relativa attività - spiega la Suprema Corte - fa parte degli atti di diligenza preparatori allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita". Invece, prosegue la Cassazione con la sentenza 19358, "se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito". Nel caso della Unilever, le modalità di 'vestizione' erano stabilite dalla stessa azienda e prevedevano quattro timbrature di cartellino, il passaggio in più tornelli e il percorso di un lungo corridoio. E a parte il recentissimo caso Unilever, ci sono da tempo sentenze della stessa Cassazione che ribadiscono che il tempo di vestizione in spogliatoio va contato come orario lavorativo a tutti gli effetti.
Ad esempio, i ricorrenti (sentenza la n 20179/2008, della sezione lavoro della corte di cassazione), a fondamento delle proprie domande, hanno AFFERMATO di essere operai dipendenti di SIPA S.p.A., azienda dolciaria, di lavorare nello stabilimento di San Giuliano Milanese e di dover, per motivi di igiene, indossare, prima di iniziare la prestazione lavorativa, determinati indumenti indicati inizialmente dal CCNL e dal 12 ottobre 1997 da disposizioni aziendali. Gli indumenti che avevano l'obbligo di indossare erano, dal 1994 al 12 ottobre 1997, un grembiule a vestaglia e cuffia per le donne e un paio di calzoni ed una giacca oppure una tuta per gli uomini. Dal 12 ottobre 1997 l'azienda aveva imposto agli operai di indossare un maggior numero di indumenti (pantaloni, polo, grembiule a pettorina, cuffia e mascherina). A ben vedere la legge è abbastanza esplicita a riguardo, e alla luce della nuova definizione di orario di lavoro, introdotta dal d.lgs. n.66/03, in virtù della quale per orario di lavoro deve intendersi <<qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro, nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni>>, si è posto il problema di come debbano essere considerate alcune particolari situazioni che possono verificarsi in azienda: questo è il caso, ad esempio, del tempo necessario per indossare gli strumenti di lavoro, ovvero il c.d. tempo tuta. In proposito la giurisprudenza, anche prima dell’entrata in vigore della nuova normativa sull’orario di lavoro, era orientata nel ritenere compreso nell’orario di lavoro il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale.
A maggior ragione, alla luce della nuova nozione di orario di lavoro – che come sopra evidenziato ricomprende tutti i periodi in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro – si ritiene che il tempo impiegato dal lavoratore per indossare e togliere la divisa rientri nell’ambito della “messa a disposizione delle proprie energie lavorative”, in quanto tempo dedicato ad una determinata attività preparatoria richiestagli dal datore di lavoro e – come tale - retribuibile. Per concludere, essendo da anni questa del tempo tuta una battaglia appannaggio soprattutto dei SINDACATI DI BASE(CUB E COBAS in primis), non ci resta che rimanere perplessi di fronte a ditte che NON lo riconoscono, e a sindacati che non rivendicano questo diritto dei LAVORATORI oramai sancito pure dalla Cassazione. Oppure dobbiamo sorbirci in merito "lezioni di modestia e di ridimensionamento salariale" sullo stile di MARCHIONNE, ovvero da chi guadagna circa 450 volte di più di un lavoratore, non pagando (o almeno non ci risulta) tasse all'erario italiano. E perché no allora dare paghe "cinesi anche ai managers"??[u]