Con l'occasione del Giorno del Ricordo delle vittime delle Foibe e dell'Esodo istro-fiumano-dalmata, molti si apprestano a piegare il ricordo di quei tragici fatti alle ragioni dell'euro-atlantismo, con annesse pseudo-giaculatorie rivolte all'Unione europea.
Per quanto mi riguarda, preferisco commemorare questa giornata ricordando l'insegnamento del maggiore interprete di questa storia, forse l'unico, almeno per quanto concerne l'ultimo decennio del Novecento: si tratta di Antonio Sema, storico militare ed esperto di geopolitica.
Antonio, scomparso nel 2007, era un Italiano, un Istriano(Esule da Pirano d'Istria), un Comunista.
Nel 1999 diede alle stampe un libro, intitolato "La fine di niente. Agosto 1994- agosto 1995: miti, diplomazie e localismi. Cronaca di una storia italo-sloveno-croato-istriana", nelle cui pagine finali analizzava l'approccio italiano alla questione nella seconda metà del Novecento, tirandone le somme. Certo del suo vivido contributo chiarificatore, riporto le sue parole nel frammento che segue:
"(...)Nella magia del politically correct che trasformava le parole in cose e la realtà in discorsi si consumava dunque la sconfitta storica di quel popolo istriano, che prima abbandonò la sua terra per ricongiungersi alla Nazione e poi non seppe reagire a chi manipolò la questione istriana riducendola a mera contabilità di case espropriate e di indenizzi. Forse, la semplicistica individuazione dell'avversario primario nello slavo-comunismo anziché nel nazionalismo slavo rivestito di rosso impedì di cogliere le tendenze di lungo periodo nella questione nordorientale e contribuì invece ad oscurare la percezione del fattore nazionale sloveno e croato. Molti istriani si convinsero che la protezione dei loro interessi nazionali richiedesse un disciplinato tributo alle mutevoli necessità del bipolarismo e poi a quelle della distensione e infine dell'Europa e votarono fiduciosamente le forze politiche che sembravano incarnare quelle esigenze. Intanto gli anni passavano e la mancata chiarezza sulla priorità da accordare al fattore nazionale anziché a quello ideologico disarmò la lotta degli istriani e dei dalmati subordinando in ogni fase del secondo dopoguerra le loro micro-ragioni nazionali alle macro-ragioni strategiche del campo ideologico entro cui avevano deciso di far confluire i loro voti. Ad ogni tornante della storia essi dovettero accettare il ricatto ideologico e per difendere l'Occidente dovettero piegarsi alle superiori esigenze del dopo Tito e poi a quelle del dopo Muro, assicurando fiduciosamente il loro voto ai politicanti della Prima repubblica e poi a quelli della Seconda. Ne ricevettero in cambio Osimo e il dopo Osimo, e vi fu sempre un Rumor e un Moro, un Fini o un Fassino a spiegare perché e quanto bisognasse cedere, in nome dell'Occidente o dell'Europa, dei buoni affari o delle piacevolezze della multietnia.
(...)Incerti, divisi fra di loro, pressati come gli altri dalla vita di ogni giorno, gli istriani si difendono come possono e come sanno, e intanto scivolano ai margini di una Nazione distratta e talvolta impaurita, comunque indifferente a quanto avviene ai confini nordorientali tranne quando bisogna bastonare i serbi per ossequiare l'impero(...)".*
*Tratto da: Antonio Sema, La fine di niente, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, Trieste, 1999.