Proverò ad essere sintetico sull’argomento, preferendo in questa sede tralasciare la questione dei "brogli" e concentrarmi esclusivamente sul contenuto del protocollo sul Welfare sottoscritto il 23 luglio 2007 da governo e sindacati che, lo dico telegraficamente, fa riferimento anche a normative e direttrici politiche emanate dall’Unione Europea. In estrema sintesi, questo è un accordo che si pone in perfetta continuità con le riforme neoliberiste del centrodestra ed ulteriormente peggiorativo delle condizioni economiche e sociali di vita del lavoro dipendente ed autonomo.
Rispetto alle riforme del centrodestra, viene confermata innanzitutto la legge 30 sul mercato del lavoro, nonché ovviamente il "pacchetto Treu" del governo Prodi I, approvato anche da Rifondazione comunista, che ha istituito per legge il precariato. I contratti a termine potranno di fatto durare anche oltre 36 mesi. Dopo questo arco di tempo (che non è poco), non c’è alcun obbligo di stipulare un contratto a tempo indeterminato, ma si stabilisce semplicemente che altri eventuali contratti a tempo determinato debbano essere stipulati non in azienda, ma presso gli uffici del lavoro "con l’assistenza di un rappresentante dell’organizzazione sindacale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato". Il sindacato sicuramente acquisisce maggiore influenza, ma in teoria le aziende potranno rinnovare quei contratti quante volte vorranno. Nessun limite è stato fissato per i contratti interinali e per tutte le altre forme di lavoro precario: i lavoratori potranno continuare a subire il succedersi di vari contratti precari. Il protocollo si prefigge inoltre di favorire ulteriormente con incentivi il cosiddetto "staff leasing", sostanzialmente l’affitto di lavoratori assunti a tempo indeterminato da specifiche agenzie.
Sulle "pensioni di anzianità", mi limito a rilevare che dal luglio 2009 i nuovi requisiti pensionistici, basati sulla somma di età ed anni di contribuzione, equivalgono a quelli dello "scalone Maroni" del centrodestra. Per i lavoratori autonomi le regole sono riviste secondo lo stesso criterio, ma tutte le soglie minime sono innalzate di un anno. A regime, l’età minima per il pensionamento anticipato sarà quindi di 61 anni per i lavoratori dipendenti e 62 per quelli autonomi.
Rispetto alla normativa del centrodestra, c’è da registrare un trattamento meno penalizzante per i lavoratori che tra gennaio 2008 e luglio 2009 hanno raggiunto i 35 anni di contribuzione. Questi dovranno avere una età minima di 58 anni, contro i 60 dello "scalone Maroni" (ma, va rilevato, i 57 della legge Dini del 1995): un’operazione che, assieme al "fondo per i lavoratori usuranti" –che concerne la possibilità di andare in pensione con le "vecchie regole" della legge Dini (che a sua volta aveva inasprivato normative precedenti) per solamente 5.000 dipendenti che svolgono "lavori usuranti"– "costerà" al governo 10 miliardi di euro.
Questa somma verrà però prelevata dallo stesso sistema previdenziale, principalmente dall’inasprimento dei contributi a carico dei lavoratori parasubordinati e dal progetto di accorpamento degli enti previdenziali. Insomma, saranno i contributi a carico dei precari a finanziare quasi metà del costo complessivo. E se la "ristrutturazione degli enti previdenziali" (chissà cosa intendono fare…) non dovesse produrre i risparmi preventivati, a partire dal 2011 è previsto un aumento dello 0.09% dell’aliquota di tutte le retribuzioni soggette a contribuzione: lavoratori "parasubordinati" (co.co.co, "lavoratori a progetto", eccetera), dipendenti ed autonomi.
E questo non è tutto. L’accordo sulle pensioni pone le basi per ulteriori decurtazioni degli assegni pensionistici futuri. Cardine del progetto, i cosiddetti "coefficienti di trasformazione" per la determinazione della pensione calcolata con il metodo contributivo, cioè quella dei "giovani" di oggi. Tali coefficienti, stabiliti in relazione all’età del dipendente alla data di decorrenza della pensione, saranno modificati in conformità a parametri esterni come le "dinamiche delle grandezze economiche", tra cui presumibilmente l’andamento del rapporto deficit di bilancio / PIL supervisionato da agenzie di rating USA, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale e Commissione Europea & Co. Ogni tre anni si controllerà l’andamento dei parametri sopra citati e presumibilmente si deciderà di quanto abbassare i coefficienti di calcolo delle pensioni per liberare risorse da destinare ad altro. Intanto, per cominciare, il protocollo prevede una riduzione dei coefficienti di circa l’8%.
La riduzione dei contributi pensionistici per le ore di straordinario costituisce inoltre un forte incentivo all’aumento dell’orario di lavoro, rendendo sconveniente l’assunzione di nuovi lavoratori. Danni si avranno pure nel bilancio dell’INPS, che vedrà ridotte ulteriormente le entrate previdenziali. La riforma degli ammortizzatori sociali si propone di implementare quei principi di "welfare to work" o "workfare" di stampo anglosassone, in base al quale lo Stato concede qualche tutela a condizione che si accettino lavori in posti anche significativamente distanti dalla propria residenza e/o retribuiti di meno rispetto ai guadagni precedenti. Andranno potenziate, avvalendosi dei fondi comunitari, le "reti dei Servizi pubblici per l’impiego", con il presumibile compito di saggiare la ‘voglia di lavorare’ dei disoccupati anche incoraggiandoli ad accettare posti di lavoro relativamente sottopagati (quello che il governo definisce "patto di servizio tra i centri per l’impiego e le persone in cerca di lavoro"). Per i precari che perdono il posto di lavoro, il massimo di diritti che il governo si permette il lusso di concedere è la possibilità di ricevere in prestito del denaro (fino alla bellezza di 600 euro mensili "a tasso d’interesse zero o molto basso") che dovrà essere restituito dopo 24 o 36 mesi, ovviamente sperando di non essere ancora disoccupati!
Ci sarebbe ancora qualcos’altro da rilevare, però mi sono dilungato già troppo. Concludo solo affermando che in questo contesto non credo sia esagerato parlare di elemosine (anche queste finanziate tra l’altro con redistribuzioni di reddito all’interno del sistema previdenziale o attingendo a quel "tesoretto" scaturito dagli inasprimenti fiscali a carico di dipendenti, autonomi e piccole imprese) per quel che riguarda gli sbandierati –ed a ben vedere irrisori– aumenti delle "pensioni basse" e dell’indennità di disoccupazione, il riscatto della laurea a fini pensionistici a costi minori, i propositi di intervento sulle donne che, oltre ad essere in parte anche discutibili nel merito, "dovranno essere compatibili con gli equilibri programmati di finanza pubblica".
Proprio con questa frase si conclude il protocollo sul Welfare. Non si poteva sintetizzare meglio il principio di base dell’operato governativo, più ligio ai dettami del "Washington Consensus" (ossia le direttive neoliberiste di riduzione del deficit di bilancio, privatizzazioni e liberalizzazioni, deregulation, eccetera) della finanza USA e delle istituzioni europee che attento ai veri bisogni del paese.