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 Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe

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Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe Empty
MessaggioTitolo: Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe   Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe Icon_minitimeGio Feb 25 2010, 14:38

PRECISAZIONI:

- il problema del liberalismo-liberismo per quel che è ha rappresentato ( capitalismo ) è secondo questi criteri :

a) relativismo ( di cui in campo sociale quello etico )
b) sfruttamento propietaristico delle risorse comuni ( e quindi poi dell'uomo provocandone l'alienazione )
c) corporativismo e socializzazione economica

H.H. Hoppe ignora il punto del tutto il punto b) denotando ancora un pensiero capitalistico.
Ad ogni modo la sua analisi , se accostata alle decrizioni di La Grassa, mi sembrano le uniche scientificamente provate.

E' utile notare che il punto b) è il punto che fa germogliare il capitalismo ( ossia non un libero interagire ma uno sfruttamento oppressivo classistico ) ed è , se rispettato, alla base del nazionalitarismo di Indipendenza.

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Lo Stato

Convenzionalmente, lo stato è definito come un'agenzia con due caratteristiche uniche. In primo luogo, è un monopolista territoriale obbligatorio di ultima risoluzione (giurisdizione). Cioè è l'arbiter ultimo in ogni caso di conflitto, compresi i conflitti che lo coinvolgono. In secondo luogo, lo stato è un monopolista territoriale della tassazione. Cioè è un'agenzia che fissa unilateralmente il prezzo che i cittadini devono pagare per la sua provvigione di legge ed ordine.

Prevedibilmente, se ci si può appellare soltanto allo stato per la giustizia, la giustizia sarà pervertita in favore dello stato. Anziché risolvere i conflitti, un monopolista di ultima risoluzione li provocherà per trarne vantaggio. Peggio ancora, mentre la qualità della giustizia rientrerà negli auspici monopolistici, il suo prezzo aumenterà. Motivati come chiunque altro dall'interesse personale ma dotati del potere di tassare, l'obiettivo degli agenti di stato è sempre lo stesso: massimizzare le entrate e minimizzare lo sforzo produttivo.


Lo Stato, la guerra e l'imperialismo

Invece di concentrarmi sulle conseguenze interne dell'istituzione di uno stato, tuttavia, metterò a fuoco sulle sue conseguenze esterne, in altre parole sulla politica estera piuttosto che su quella interna.

Per cominciare, come agenzia che perverte la giustizia ed impone le tasse, ogni stato è minacciato dalla “fuga.” In particolare i suoi cittadini più produttivi possono fuggire per evitare le tasse e le perversioni della legge. Nessuno stato lo gradisce. Al contrario, piuttosto di vedere la base di imposta ed il controllo restringersi, gli agenti dello stato preferiscono espanderli. Ma questo li porta in conflitto con altri stati. Diversamente dalla concorrenza fra le persone e le istituzioni “naturali,” tuttavia, la concorrenza tra stati è eliminativa. Che significa che ci può essere soltanto un monopolista di ultima risoluzione e tassazione in una data zona. Di conseguenza, la concorrenza fra stati diversi promuove una tendenza verso la centralizzazione politica ed infine un singolo stato mondiale.

Ancora, come monopolisti di ultima risoluzione finanziati dalle tasse, gli stati sono istituzioni inerentemente aggressive. Mentre le persone e le istituzioni “naturali” devono sopportare in prima persona il costo di un comportamento aggressivo (cosa che può facilmente indurle ad astenersi da tale comportamento), gli stati possono esternalizzare questo costo sui loro contribuenti. Quindi, gli agenti dello stato sono inclini a diventare provocatori ed aggressori ed il processo di centralizzazione si può prevedere che proceda per mezzo di scontri violenti, ovvero le guerre tra stati.

Inoltre, dato che gli stati devono nascere piccoli e presupponendo come punto di partenza un mondo composto di un gran numero di unità territoriali indipendenti, possiamo affermare qualcosa di piuttosto specifico circa il requisito per il successo. La vittoria o la sconfitta nella guerra tra stati dipende da molti fattori, naturalmente, ma data una stessa misura in altre cose quale la dimensione della popolazione, a lungo termine il fattore decisivo è la relativa quantità di risorse economiche a disposizione dello stato. Tassando e regolando, gli stati non contribuiscono alla creazione di ricchezza economica. Al contrario, essi drenano parassiticamente la ricchezza esistente. In effetti, i governi degli stati possono influenzare negativamente la quantità di ricchezza attuale. Quando altri fattori sono uguali, minore è il peso della regolazione e delle tasse imposto all'economia interna, più la popolazione tenderà ad aumentare e maggiore sarà la quantità di ricchezza prodotta sul piano nazionale da cui lo stato può attingere nei suoi conflitti con i competitori vicini. Cioè gli stati che tassano e regolano le loro economie comparativamente di meno – gli stati liberali – tendono a sconfiggere quelli meno liberali e ad espandere i loro territori o il loro raggio di controllo egemonico a discapito di questi ultimi.

Ciò spiega, per esempio, perché l'Europa occidentale è riuscita a dominare il resto del mondo piuttosto che il contrario. Più specificamente, spiega perché sono stati prima gli olandesi, poi i Britannici e per concludere, nel ventesimo secolo, gli Stati Uniti, a trasformarsi nella potenza imperiale dominante e perchè gli Stati Uniti, internamente uno degli stati più liberali, ha condotto la politica estera più aggressiva, mentre l'ex Unione Sovietica, per esempio, con le sue politiche interne interamente illiberali (repressive) praticò una politica estera comparativamente più pacifica e prudente. Gli Stati Uniti sapevano che potevano battere militarmente qualsiasi altro stato; quindi, erano aggressivi. In opposizione, l'Unione Sovietica sapeva di essere destinata a perdere un confronto militare con qualunque stato di dimensioni notevoli a meno di riuscire a vincere in pochi giorni o settimane.


Dalla monarchia e le guerre di eserciti alla democrazia e le guerre totali


Storicamente, la maggior parte degli stati sono state monarchie, guidate da re o da principi assoluti o costituzionali. È interessante chiedersi il perché, ma qui devo lasciare questo problema da parte. Basti dire che gli stati democratici (comprese le cosiddette monarchie parlamentari), guidati da presidenti o da primi ministri, erano rari fino alla rivoluzione francese ed hanno assunto importanza storica solo dopo la prima guerra mondiale.

Mentre da tutti gli stati ci si deve attendere che abbiano inclinazioni aggressive, la struttura incentiva affrontata dai re tradizionali da una parte e dai presidenti moderni d'altra differisce abbastanza da essere responsabile di diverse tipologie di guerra. Mentre i re si consideravano come privati proprietari del territorio sotto il loro controllo, i presidenti si considerano come custodi provvisori. Il proprietario di una risorsa si preoccupa che il reddito corrente derivi dalla risorsa e dal valore capitale compreso in essa (come riflessione di un previsto reddito futuro). I suoi interessi sono di lunga durata, con una preoccupazione per la conservazione e l'aumento dei valori capitali compresi nel “suo” paese. In opposizione, il custode di una risorsa (vista come pubblica piuttosto che come proprietà privata) è interessato soprattutto al suo reddito corrente e presta poca o nessuna attenzione ai valori capitali.

Il risultato empirico di questa diversa struttura incentiva è che le guerre monarchiche tendevano ad essere “moderate” e “conservatrici” rispetto alla guerra democratica.

Le guerre monarchiche sorgevano tipicamente da dispute di eredità provocate da una rete complessa di unioni inter-dinastiche. Erano caratterizzate da obiettivi territoriali definiti. Non erano scontri ideologicamente motivati. Il pubblico considerava la guerra un affare privato del re, finanziato ed eseguito con i suoi soldi e le sue forze militari. Inoltre, trattandosi di conflitti fra differenti famiglie governanti, i re si sentivano obbligati a riconoscere una chiara distinzione fra combattenti e non combattenti e ad indirizzare i loro sforzi di guerra esclusivamente uno contro l'altro e verso le loro proprietà di famiglia. Come lo storico militare Michael Howard notava sulle guerre monarchiche del diciottesimo secolo:

Sul continente [europeo], il commercio e gli interscambi culturali continuarono in tempo di guerra quasi indisturbati. Le guerre erano guerre del re. Il ruolo di buon cittadino era di pagare le sue tasse e la solida economia politica dettava che doveva essere lasciato in pace per guadagnare i soldi con cui pagare quelle tasse. Non era richiesto che partecipasse né alle decisioni da cui prendevano inizio le guerre né a parteciparvi una volta scoppiate, a meno che richiamato da uno spirito giovanile avventuroso. Queste materie erano arcane regni, preoccupazione del solo sovrano. [War in European History, 73]

Similmente Ludwig von Mises osservava circa le guerre di eserciti:

Nelle guerre di eserciti, l'esercito combatte mentre i cittadini che non sono membri dell'esercito proseguono le loro vite normali. I cittadini pagano i costi della guerra; pagano la manutenzione e le attrezzature dell'esercito, ma in ogni caso rimangono fuori dagli eventi bellici. Può accadere che azioni di guerra radano al suolo le loro case, devastino la loro terra e distruggano le alte loro proprietà; ma anche questo fa parte dei costi di guerra che devono sopportare. Può anche accadere che siano saccheggiati ed incidentalmente siano uccisi dai guerrieri – anche da quelli del loro “proprio” esercito. Ma questi sono eventi non inerenti alla guerra come tale; ostacolano piuttosto che aiutare le operazioni dei comandanti dell'esercito e non sono tollerati se quelli al comando hanno il completo controllo sulle loro truppe. Lo stato in guerra che ha formato, equipaggiato e mantenuto l'esercito considera il saccheggio da parte dei soldati un'offesa; sono stati assunti per combattere, non per saccheggiare. Lo stato vuole mantenere la consuetudine della vita civile perché desidera conservare la capacità di pagare dei propri cittadini; i territori conquistati sono considerati come proprio dominio. Il sistema dell'economia di mercato deve essere mantenuto durante la guerra per servire i requisiti della di guerra. [Nationalökonomie, 725–26]

Contrariamente alla guerra limitata dell'ancien regime, l'era della guerra democratica – che è cominciata con la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, continuata durante il diciannovesimo secolo con la guerra civile americana ed ha raggiunto il suo apice durante il ventesimo secolo con la prima e la seconda guerra mondiale – è stata l'era della guerra totale.

Nell'offuscamento della distinzione fra i governanti ed i governati (“tutti ci governiamo da soli”), la democrazia ha rinforzato l'identificazione del pubblico con un particolare stato. Invece di essere dispute dinastiche di proprietà che potrebbero essere risolte con la conquista e l'occupazione, le guerre democratiche si sono trasformate in in battaglie ideologiche: scontri di civiltà, che possono risolversi soltanto con la dominazione, la sottomissione e, se necessario, lo sterminio culturale, linguistico, o religioso. È diventato sempre più difficile per i membri del pubblico estromettersi dalla partecipazione personale alla guerra. La resistenza contro imposte più elevate per costituire un fondo bellico è considerata tradimento. Poiché gli stati democratici, diversamente da una monarchia, “sono posseduti” da tutti, la coscrizione è diventata la regola piuttosto che l'eccezione. E con enormi eserciti di coscritti a buon mercato e quindi facilmente disponibili che combattono per obiettivi ed ideali nazionali, sostenuti dalle risorse economiche di un'intera nazione, tutte le distinzioni fra combattenti e non combattenti sono cadute. I danni collaterali non sono più un effetto secondario non intenzionale ma si sono trasformati in in una parte integrante della guerra. "Una volta che lo stato ha cessato di esser visto come ‘proprietà’ di principi dinastici," notava Michael Howard,

ed è diventato invece lo strumento di potenti forze dedicate a concetti astratti come la Libertà, o la Nazionalità, o la Rivoluzione, che ha permesso ad una vasta parte della popolazione di vedere in quello stato l'incarnazione di un certo bene assoluto per il quale non c'era nessun prezzo troppo elevato, nessun sacrificio troppo grande da pagare; allora i ‘conflitti temperati e non decisivi’ dell'era del rococò sono apparsi come irragionevoli anacronismi. [ibid. 75-76]

Osservazioni simili sono state fatte dallo storico militare e general-maggiore J.F.C. Fuller:

L'influenza dello spirito della nazionalità, che è della democrazia, sulla guerra è stata profonda, … [esso] ha emozionalizzato la guerra e l'ha, conseguentemente, brutalizzata; …. Gli eserciti nazionali combattono le nazioni, gli eserciti reali combattono i loro simili, i primi obbediscono ad un branco – sempre demente, i secondi ad un re, in genere sensato. … Tutto questo si è sviluppato dalla rivoluzione francese, che inoltre ha donato al mondo la leva – la guerra del branco e l'unione del branco con la finanza ed il commercio ha prodotto nuovi regni della guerra. Perché quando la nazione intera combatte, allora tutto il credito nazionale è disponibile per lo scopo della guerra. [War and Western Civilization, 26-27]

E William A. Orton ha così ricapitolato la questione:

Le guerre del diciannovesimo secolo furono mantenute all'interno di limiti dalla tradizione, ben riconosciuta nel diritto internazionale, che la proprietà ed il commercio civili fossero fuori dalla sfera del combattimento. I beni civili non erano esposti a pignoramento arbitrario o a sequestro permanente e a parte condizioni territoriali e finanziarie che uno stato poteva imporre un altro, alla vita economica e culturale dei belligeranti generalmente si permetteva di continuare generalmente come al solito. La pratica del ventesimo secolo ha cambiato tutto questo. Durante entrambe le guerre mondiali liste illimitate di contrabbando accoppiate con dichiarazioni unilaterali di legge marittima misero ogni tipo di commercio in pericolo e fecero carta straccia di tutti i precedenti. La fine della prima guerra fu contrassegnata da uno sforzo risoluto e riuscito di impedire il miglioramento della situazione economica dei principali perdenti, e di mantenere determinate proprietà civili. La seconda guerra vide l'estensione di quella politica ad un punto in cui il diritto internazionale in guerra ha cessato di esistere. Per anni il governo della Germania, fin dove le proprie armi potevano arrivare, aveva basato una politica di confisca su una teoria razziale che non ha aveva posto nella legge civile, nel diritto internazionale, né nell'etica cristiana; e quando la guerra cominciò, quella violazione del comitato delle nazioni si dimostrò contagiosa. Il comando anglo-americano, sia nelle parole che nell'azione, lanciò una crociata che non ammetteva limiti né legali né territoriali all'esercizio della coercizione. Il concetto di neutralità venne infranto sia nella teoria che nella pratica. Non solo i beni e gli interessi nemici, ma i beni e gli interessi di qualunque parte, anche in paesi neutri, furono esposti ad ogni vincolo che le potenze belliche potevano mettere in atto; ed i beni e gli interessi degli stati neutrali, ed i loro civili, situati in territori in guerra o sotto controllo bellico, furono praticamente sottoposti alla stessa specie di coercizione di quelli delle nazioni nemiche. Così la “guerra totale” è diventata una specie di guerra a cui nessuna comunità civile potrebbe sperare di sfuggire; e le “nazioni amanti della pace” ne trarranno le ovvie deduzioni. [The Liberal Tradition: A Study of the Social and Spiritual Conditions of Freedom, 251–52]


Excursus: la dottrina della pace democratica

Ho spiegato come l'istituzione di uno stato conduce alla guerra; perché, in modo apparentemente paradossale, stati internamente liberali tendano ad essere potenze imperialiste; e come lo spirito della democrazia ha contribuito alla de-civilizzazione nella condotta di guerra.

Più specificatamente, ho spiegato l'ascesa degli Stati Uniti al rango di prima potenza imperiale del mondo; e, come conseguenza della sua successiva trasformazione dall'iniziale repubblica aristocratica in una democrazia di massa senza limiti che cominciò con la guerra di indipendenza del sud, il ruolo degli Stati Uniti come guerrafondaio sempre più arrogante, moralista e zelante.

Ciò che sembra ostacolare la pace e la civiltà è, quindi, soprattutto lo stato e la democrazia, e specificatamente la democrazia modello del mondo: gli Stati Uniti. Ironicamente se non sorprendentemente, tuttavia, sono precisamente gli Stati Uniti, a sostenere di essere la soluzione alla ricerca della pace.

Il motivo per questa asserzione è la dottrina della pace democratica, che risale ai giorni di Woodrow Wilson e della prima guerra mondiale, è stata fatta rivivere negli ultimi anni da George W. Bush e dai suoi consiglieri neo-conservatori ed è ormai diventata folclore intellettuale anche nei circoli liberal-libertari. La teoria afferma:

• Le democrazie non si fanno la guerra.
• Quindi, per creare una pace duratura, l'intero mondo deve essere reso democratico.

E come corollario – in gran parte non specificato:

• Oggi, molti stati non sono democratici e resistono alla riforma – democratica – interna.
• Quindi, la guerra deve essere intrapresa con quegli stati per convertirli alla democrazia e creare così una pace duratura.

Non ho la pazienza per una critica completa di questa teoria. Fornirò soltanto una breve critica delle sue premesse iniziali e della sua conclusione finale.

Primo: Le democrazie non si fanno la guerra? Poiché quasi nessuna democrazia è esistita prima del ventesimo secolo la risposta si presume dev'essere cercata negli ultimi cento anni circa. Infatti, il grosso della prova offerta per la tesi è l'osservazione che i paesi dell'Europa occidentale non si sono combattuti nell'era dopo la Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, nella regione del Pacifico, il Giappone e la Corea del sud non si sono combattuti durante lo stesso periodo. Questa evidenza dimostra il caso? I teorici della pace democratica pensano di sì. Come “scienziati” sono interessati nelle prove “statistiche” e come la vedono loro c'è abbondanza di “casi” sui quali costruire tale prova: la Germania non ha fatto la guerra contro la Francia, l'Italia, l'Inghilterra, ecc.; la Francia non ha fatto la guerra contro la Spagna, l'Italia, il Belgio, ecc… Inoltre, ci sono permutazioni: la Germania non ha attaccato la Francia, né la Francia ha attaccato la Germania, ecc… Quindi abbiamo apparentemente dozzine di conferme – e questo per circa 60 anni – e non un singolo contro-esempio. Ma davvero abbiamo tanti casi di conferma?

La risposta è no: non abbiamo realmente nient'altro che un singolo caso a disposizione. Con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, essenzialmente tutta – ormai: democratica – l'Europa occidentale (ed il Giappone democratico e la Corea del sud nella regione del Pacifico) è diventata parte dell'impero degli Stati Uniti, come indicato dalla presenza delle truppe degli Stati Uniti in praticamente tutti questi paesi. Quello che il periodo di pace dopo la Seconda Guerra Mondiale allora “dimostra” non è che le democrazie non si fanno la guerra ma che una potenza egemonica e imperialista quale gli Stati Uniti non ha permesso che le sue varie parti coloniali si combattessero tra loro (e, naturalmente, che l'egemone stesso non ha avuto alcuna necessità di andare a combattere contro i suoi satelliti – perché hanno obbedito - ed essi non hanno avuto bisogno o non hanno osato disobbedire al loro padrone).

Inoltre, se la questione è così percepita – basata su una comprensione della storia piuttosto che sulla credenza naïf che poiché un'entità ha un nome diverso da un altro il loro comportamento deve essere indipendente l'uno dall'altro – diventa evidente che la prova presentata non ha niente a che fare con la democrazia e tutto con l'egemonia. Per esempio, nessuna guerra è scoppiata fra la conclusione della Seconda Guerra Mondiale e la conclusione degli anni '80, cioè durante il regno egemonico dell'Unione Sovietica, fra la Germania Orientale, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Romania, la Bulgaria, la Lituania, l'Estonia, l'Ungheria, ecc. Questo perché erano dittature comuniste e le dittature comuniste non si combattono tra loro? Questa dovrebbe essere la conclusione degli “scienziati” del calibro dei teorici della pace democratica! Ma certamente questa conclusione è errata. Non è scoppiata nessuna guerra perché l'Unione Sovietica non ha permesso che accadesse – proprio come non è scoppiata nessuna guerra fra le democrazie occidentali perché gli Stati Uniti non hanno permesso che accadesse nel suo dominio. Per essere sicura, l'Unione Sovietica è intervenuta in Ungheria ed in Cecoslovacchia, ma così hanno fatto gli Stati Uniti in varie occasioni in Centro-America come in Guatemala, ad esempio. (Per inciso: e le guerre fra Israele e la Palestina e il Libano? Non sono queste tutte democrazie? O i paesi arabi sono per definizione non-democratici?)

Secondo: Che dire sulla democrazia come soluzione a qualsiasi cosa, e tanto meno la pace? Qui il caso dei teorici della pace democratica sembra ancora peggiore. Effettivamente, la mancanza di comprensione storica da loro mostrata è davvero spaventosa. Ecco soltanto alcune imperfezioni fondamentali:

Primo, la teoria presuppone una convergenza concettuale di democrazia e libertà che si può soltanto definire scandalosa, in particolar modo quando proviene da sedicenti libertari. Il fondamento e la pietra angolare della libertà è l'istituzione della proprietà privata; e la proprietà privata – esclusiva – è logicamente incompatibile con la democrazia – legge della maggioranza. La democrazia non ha niente a che fare con la libertà. La democrazia è una variante morbida del comunismo e nella storia delle idee raramente è stata presa per qualcos'altro. Per inciso, prima dello scoppio dell'era democratica, cioè fino all'inizio del ventesimo secolo, la tassa di spesa (unendo tutti i livelli del governo) del governo (stato) nei paesi dell'Europa occidentale costituiva qualcosa fra il 7 ed il 15% del prodotto nazionale e nei giovani Stati Uniti ancora di meno. Meno di cento anni di dittatura della maggioranza hanno aumentato questa percentuale a circa il 50% in Europa e il 40% negli Stati Uniti.

Secondo, la teoria della pace democratica distingue essenzialmente soltanto fra democrazia e non-democrazia, sommariamente identificata con la dittatura. Così non solo spariscono tutti i regimi aristocratico-repubblicani dalla vista, ma più importante per i miei scopi del momento, anche tutte le monarchie tradizionali. Sono equiparate con le dittature à la Lenin, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao. In realtà, tuttavia, le monarchie tradizionali hanno poco in comune con le dittature (mentre democrazia e dittatura sono intimamente legate).

Le monarchie sono la conseguenza semi-organica di ordini sociali naturali – senza stato – gerarchicamente strutturati. I re sono i capi di famiglie estese, di clan, tribù, e nazioni. A loro fa capo una gran quantità di autorità naturale e volontariamente riconosciuta, ereditata ed accumulata in molte generazioni. È nel quadro di tali ordini (e delle repubbliche aristocratiche) che il liberalismo si è sviluppato ed ha fiorito in primo luogo. In contrasto, le democrazie sono di stampo egalitario e redistribuzionista; da cui lo sviluppo sopra menzionato del potere dello stato nel ventesimo secolo. Tipicamente, la transizione dall'era monarchica a quella democratica, cominciata nella seconda metà del diciannovesimo secolo, ha visto un declino continuo nella resistenza dei partiti liberali ed un rinforzo corrispondente dei socialisti di ogni tipo.

Terzo, ne consegue che l'opinione che i teorici della pace democratica hanno delle conflagrazioni come la Prima Guerra Mondiale dev'essere considerata grottesca, almeno dal punto di vista di qualcuno che si presume stimi la libertà. Per loro, questa guerra era essenzialmente una guerra della democrazia contro la dittatura; quindi, poiché aumentò il numero delle democrazie, fu una guerra progressiva, pacificatrice, e quindi giustificata.

In realtà, la questione è molto diversa. Certamente, la Germania e l'Austria prebelliche potevano non qualificarsi al tempo democratiche quanto l'Inghilterra, la Francia, o gli Stati Uniti. Ma la Germania e l'Austria definitivamente non erano dittature. Erano monarchie (sempre più fiacche) e come tali indiscutibilmente liberali come – se non di più – delle loro controparti. Per esempio, negli Stati Uniti, i pacifisti furono imprigionati, la lingua tedesca essenzialmente messa fuorilegge, ed i cittadini di discendenza tedesca aggrediti apertamente e spesso costretti a cambiare i loro nomi. Niente di paragonabile accadde in Austria ed in Germania.

In ogni caso, tuttavia, il risultato della crociata per rendere il mondo sicuro per la democrazia fu meno liberale di ciò che era esistito prima (ed il trattato di pace di Versailles lo fece precipitare nella Seconda Guerra Mondiale). Non solo il potere dello stato si sviluppò più velocemente dopo la guerra rispetto a prima. In particolare, il trattamento delle minoranze si è deteriorato nel periodo democratizzato del dopoguerra. Nella Cecoslovacchia recentemente fondata, per esempio, i tedeschi vennero maltrattati sistematicamente (fino ad essere espulsi a milioni e macellati a decine di migliaia dopo la Seconda Guerra Mondiale) dalla maggioranza di Cechi. Niente di nemmeno lontanamente paragonabile era accaduto ai Cechi durante il precedente regno degli Asburgo. La situazione per quanto riguarda i rapporti fra i tedeschi e gli slavi del sud nell'Austria prebellica rispetto alla Yugoslavia del dopoguerra fu simile.

Né si trattò di un caso. Come sotto la monarchia asburgica in Austria, per esempio, le minoranze erano state trattate ragionevolmente bene anche sotto gli ottomani. Tuttavia, quando l'impero ottomano multi-culturale si disintegrò nel corso del diciannovesimo secolo e fu sostituito da stati-nazione semi-democratici quali la Grecia, la Bulgaria, ecc., i musulmani ottomani presenti vennero espulsi o sterminati. Similmente, dopo che la democrazia ebbe trionfato negli Stati Uniti con la conquista militare della Confederazione del Sud, il governo dell'Unione procedette rapidamente allo sterminio degli indiani dei Plains. Come Mises aveva riconosciuto, la democrazia non funziona nelle società multi-etniche. Non genera la pace ma promuove il conflitto e tende potenzialmente al genocidio.

Quarto e intimamente correlato, i teorici della pace democratica sostengono che la democrazia rappresenti un “equilibrio stabile.” Questo è stato espresso chiaramente da Francis Fukuyama, che ha identificato il nuovo ordine democratico del mondo come la “fine della storia.” Tuttavia, esiste una prova schiacciante che questa pretesa è palesemente errata.

Su un piano teorico: come può la democrazia essere un equilibrio stabile se è possibile che si trasformi democraticamente in una dittatura, e quindi in un sistema considerato non stabile? Risposta: non ha senso!

Inoltre, empiricamente, le democrazie sono tutto meno che stabili. Come indicato, in società multi-culturali la democrazia conduce regolarmente alla discriminazione, all'oppressione, o persino all'espulsione e lo sterminio delle minoranze – difficilmente un pacifico equilibrio. E nelle società etnicamente omogenee, la democrazia conduce regolarmente alla lotta di classe, che conduce alla crisi economica, che conduce alla dittatura. Pensate, ad esempio, alla Russia post-zarista, all'Italia dopo la Prima Guerra Mondiale, alla Germania di Weimar, alla Spagna, al Portogallo e in periodi più recenti Grecia, Turchia, Guatemala, Argentina, Cile e Pakistan.

Non solo questa correlazione fra la democrazia e la dittatura è seccante per i teorici della pace democratica; peggio ancora, devono cimentarsi con il fatto che le dittature che emergono dalle crisi della democrazia non sono affatto sempre peggiori, da un punto di vista liberale classico o libertario, di ciò che sarebbe risultato diversamente. I casi dove le dittature furono preferibili ed un miglioramento possono essere citati facilmente. Pensate all'Italia e a Mussolini o alla Spagna e a Franco. In più, come si può far quadrare per gli stralunati difensori della democrazia il fatto che i dittatori, piuttosto diversamente dai re che devono il loro grado ad un incidente di nascita, sono spesso favoriti delle masse ed in questo senso altamente democratici? Pensate soltanto a Lenin o a Stalin, che erano certamente più democratici dello zar Nicola II; o pensate a Hitler, che era definitivamente più democratico e “un uomo del popolo” del Kaiser Guglielmo II o del Kaiser Francesco Giuseppe.

Secondo i teorici della pace democratica, allora, sembrerebbe che si debba fare la guerra contro i dittatori stranieri, siano re o demagoghi, per installare le democrazie, che quindi si trasformano in dittature (moderne), fino a che, si suppone, gli Stati Uniti stessi non si saranno trasformati in una dittatura, a causa dello sviluppo del potere interno dello stato che deriva dalle infinite “emergenze” generate dalle guerre all'estero.

Meglio, oso dire, fare attenzione al consiglio di Erik von Kuehnelt-Leddihn e, invece di mirare a rendere il mondo sicuro per la democrazia, provare a renderlo sicuro dalla democrazia – dappertutto, ma soprattutto negli Stati Uniti.
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MessaggioTitolo: Re: Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe   Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe Icon_minitimeGio Feb 25 2010, 15:05

ULTERIORE PRECISAZIONE:

l'oppressione pre-capitalistica potremmo dire derivi invece dal punto a) , il punto c) essendo invece l'ultimo stadio della storia dell'oppressione.

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L'incoerenza intellettuale del conservatorismo


Il conservatorismo moderno, negli Stati Uniti e in Europa, è confuso e distorto. Sotto l'influenza della democrazia rappresentativa e con la trasformazione di Stati Uniti ed Europa in democrazie totali dalla Prima Guerra Mondiale, il conservatorismo è stato trasformato da una forza ideologica anti-egalitaria, aristocratica, anti-statalista in un movimento di statalisti culturalmente conservatori: la destra dei socialisti e dei democratici sociali.

La maggior parte dei sedicenti conservatori contemporanei sono preoccupati, come dovrebbero essere, del deperimento della famiglia, del divorzio, dell'illegittimità, della perdita di autorità, del multiculturalismo, della disintegrazione sociale, del libertinismo sessuale e del crimine. Tutti questi fenomeni che considerare come anomalie e deviazioni dall'ordine naturale, o quello che potremmo chiamare normalità.

Tuttavia, la maggior parte dei conservatori contemporanei (almeno la maggior parte dei portavoce dell'establishment conservatore) o non riconoscono che il loro obiettivo di ristabilire la normalità richiede i più drastici, persino rivoluzionari, cambiamenti sociali antistatalisti, o (se lo sanno) sono impegnati a tradire l'agenda culturale conservatrice dall'interno per promuovere un'agenda completamente diversa.

Che questo sia in gran parte vero per i cosiddetti neoconservatori non necessita qui di ulteriore spiegazione. Effettivamente, per quanto riguarda i loro capi, si può sospettare che la maggior parte di essi siano del secondo tipo. Non sono realmente interessati dagli argomenti culturali ma riconoscono che devono giocare la carta del tradizionalismo culturale per non perdere il potere e promuovere il loro obiettivo totalmente differente della democrazia sociale globale. [1] Il carattere fondamentalmente statalista del neoconservatorismo americano è riassunto al meglio da una dichiarazione di uno dei suoi campioni intellettuali di punta, Irving Kristol:

“[I]l principio alla base di un welfare conservatore dev'essere semplice: ove possibile, alla gente dovrebbe essere permesso di tenere i propri soldi – piuttosto che trasferirli (per mezzo delle tasse allo stato) – a condizione che li utilizzino in un certo modo definito.” [Two Cheers for Capitalism, New York: Basic Books, 1978, p. 119].

Questa opinione è essenzialmente identica a quella tenuta dai moderni social-democratici europei post-marxisti. Il Partito Social-Democratico tedesco (SPD), per esempio, nel suo programma Godesberg del 1959, adottò come suo motto centrale lo slogan “tanto mercato quanto possibile, tanto stato quanto necessario.”

Un secondo ramo, un po' più vecchio ma al giorno d'oggi quasi indistinguibile del conservatorismo americano contemporaneo è rappresentato dal nuovo (post-Seconda Guerra Mondiale) conservatorismo lanciato e promosso, con l'assistenza della CIA, da William Buckley ed il suo National Review. Laddove il vecchio (pre-Seconda Guerra Mondiale) conservatorismo americano era stato caratterizzato decisamente da posizioni in politica estera decisamente anti-interventiste, i marchi del nuovo conservatorismo di Buckley sono stati il suo rabbioso militarismo e la politica estera interventista.

In un articolo, “L'opinione di un giovane repubblicano,” pubblicato su Commonweal il 25 gennaio 1952, tre anni prima del lancio del suo National Review, Buckley ha così riassunto quello che si sarebbe trasformato nel nuovo credo conservatore: alla luce della minaccia posta dall'Unione Sovietica, “noi [i nuovi conservatori] dobbiamo accettare il Grande Governo finché dura questa minaccia – perché né una guerra offensiva né una difensiva può essere intrapresa se non tramite lo strumento di una burocrazia totalitaria all'interno delle nostre coste.”

I conservatori, scriveva Buckley, avevano il dovere morale di promuovere “le vaste e produttive leggi fiscali necessarie a sostenere una vigorosa politica estera anticomunista,” così come “le grandi armate e forze aeronautiche, l'energia atomica, lo spionaggio, i comitati di produzione di guerra e la relativa centralizzazione del potere a Washington.”

Com'era logico aspettarsi, dopo il crollo dell'Unione Sovietica verso la fine degli anni 80, essenzialmente niente di questa filosofia è cambiato. Oggi, la continuazione e la conservazione dello stato sociale e bellico americano è semplicemente giustificata e promossa dai nuovi e dai neo-conservatori in egual misura riferendosi ad altri nemici e pericoli stranieri: la Cina, il fondamentalismo islamico, Saddam Hussein, gli “stati canaglia,” e la minaccia del “terrorismo globale.”

Tuttavia, è anche vero che molti conservatori sono genuinamente preoccupati dalla disintegrazione o disfunzione della famiglia e dal declino culturale. Sto pensando qui in particolare al conservatorismo rappresentato da Patrick Buchanan e dal suo movimento. Il conservatorismo di Buchanan non è affatto così diverso da quello dell'establishment del Partito Repubblicano come a lui ed ai suoi seguaci piace immaginare. In un aspetto decisivo la loro marca di conservatorismo è in completo accordo con quello dell'establishment conservatore: entrambi sono statalisti. Differiscono su cosa esattamente è necessario fare per ristabilire la normalità negli Stati Uniti, ma concordano che deve essere fatto dallo stato. Non c'è traccia di antistatalismo di principio né nell'uno né nell'altro.

Ve lo illustro citando Samuel Francis, che era uno dei principali teorici e strateghi del movimento buchananita.
Dopo aver deplorato la propaganda "anti-bianca e anti-occidentale" il
laicismo militante, l'avido egoismo, il globalismo economico e politico, l'inondazione demografica ed il centralismo incontrollato dello stato, parla di un nuovo spirito “prima l'America,” che “implica non solo il mettere gli interessi nazionali sopra quelli delle altre nazioni - e di astrazioni come la ‘guida del mondo, l'armonia globale ed il ‘Nuovo Ordine Mondiale - ma anche il dare priorità alla nazione rispetto alla soddisfazione di interessi diversi e sub-nazionali.”

Come propone di risolvere il problema della degenerazione morale e del declino culturale? Non c'è il riconoscimento che l'ordine naturale nell'educazione significa che lo stato non abbia niente a che fare con essa. L'educazione è totalmente una questione di famiglia e dev'essere prodotta e distribuita da accordi cooperativi nel quadro dell'economia di mercato.

Inoltre, non c'è il riconoscimento che la degenerazione morale ed il declino culturale hanno cause più profonde e non possono essere curati semplicemente da cambiamenti nel programma di studio imposto dallo stato o da esortazioni e declamazioni. Al contrario, Francis propone che la rivoluzione culturale – il ripristino della normalità – possa essere realizzata senza un cambiamento fondamentale nella struttura degli stati sociali moderni. Effettivamente, Buchanan ed i suoi ideologhi difendono esplicitamente le tre istituzioni centrali dello stato sociale: la previdenza sociale, l'assistenza sanitaria statale e i sussidi di disoccupazione. Addirittura vogliono ampliare le responsabilità “sociali” dello stato assegnandogli il compito di “proteggere,” con restrizioni delle importazioni e delle esportazioni nazionali, i posti di lavoro americani, particolarmente nelle industrie di interesse nazionale, e di “isolare gli stipendi degli operai degli Stati Uniti dai lavoratori stranieri che devono lavorare per 1 dollaro l'ora o anche meno.”

In effetti, i buchananiti ammettono liberamente di essere statalisti. Detestano e ridicolizzano il capitalismo, il “laissez faire,” i mercati ed il commercio liberi, la ricchezza, l'élite e la nobiltà; e sostengono un nuovo conservatorismo populista – effettivamente proletario – che amalgama il conservatorismo sociale e culturale e l'economia socialista. Quindi, continua Francis,

mentre la sinistra poteva conquistare l'Americano Medio con le sue misure economiche, lo ha perso con il suo radicalismo sociale e culturale, e mentre la destra poteva attirare l'Americano Medio con gli appelli alla legge e all'ordine e la difesa della normalità sessuale, della morale e religione convenzionale, delle istituzioni sociali tradizionali e con le invocazioni al nazionalismo ed al patriottismo, lo ha perso quando ha riproposto le sue vecchie formule economiche borghesi.

Ne consegue che sia necessario unire le politiche economiche della sinistra con il nazionalismo ed il conservatorismo culturale e della destra, per creare “una nuova identità che sintetizza sia gli interessi economici che le lealtà nazional-culturali della classe media proletarizzata in un movimento politico separato ed unificato.” [2] Per ovvi motivi questa dottrina non viene chiamata così, ma c'è un termine per questo tipo di conservatorismo: si chiama o social-nazionalismo o nazional-socialismo.

(Per quanto riguarda la maggior parte dei capi della cosiddetta Destra Cristiana e della maggioranza pseudo morale, vogliono semplicemente rimpiazzare l'attuale élite liberal e di sinistra incaricata dell'educazione nazionale con un'altra, ovvero, loro stessi. “Da Burke in poi,” Robert Nisbet ha criticato questa posizione “è stato un precetto conservatore e un principio sociologico fin da Auguste Comte che il modo più sicuro di indebolire la famiglia, o qualsiasi altro gruppo sociale vitale, è che il governo assuma, e quindi monopolizzi, le funzioni storiche della famiglia.” In contrasto, gran parte della destra americana contemporanea “è meno interessata dalle immunità burkeane dal potere del governo di quanto lo sia nel mettere il massimo di potere governativo nelle mani di coloro di cui ci si può fidare. È il controllo del potere, non la diminuzione del potere, ad occupare i primi posti.”)

Non approfondirò qui la questione se il conservatorismo di Buchanan attragga le masse e se la sua diagnosi della politica americana sia sociologicamente corretta.
Dubito che questo sia il caso e certamente il destino di Buchanan nelle primarie presidenziali repubblicane del 1995 e del 2000 non indica altrimenti. Piuttosto, voglio rivolgermi alle questioni fondamentali: supponendo che eserciti tale attrazione; ovvero supponendo che il conservatorismo culturale e l'economia socialista possano essere psicologicamente combinati (cioè che una persona possa avere simultaneamente entrambe queste opinioni senza dissonanza cognitiva), possono anche essere efficacemente e praticamente (economicamente e prasseologicamente) unite? È possibile mantenere il livello attuale di socialismo economico (previdenza sociale, ecc.) e raggiungere l'obiettivo di ristabilire la normalità culturale (famiglie naturali e normali regole di comportamento)?

Buchanan ed i suoi teorici non avvertono l'esigenza di sollevare questo problema, perché credono che le politiche siano solamente una questione di volontà e potere. Non credono in cose come le leggi economiche. Se delle persone vogliono qualcosa abbastanza, e viene dato loro il potere di realizzare la loro volontà, tutto può essere realizzato. “L'economista austriaco morto” Ludwig von Mises, al quale Buchanan ha fatto riferimento sprezzante durante le sue campagne presidenziali, caratterizzò questa convinzione come “storicismo,” la posizione intellettuale del Kathedersozialisten tedesco, gli accademici Socialisti della Poltrona, che giustificavano ogni e qualsiasi misura statalista.

Ma il disprezzo e l'ignoranza dell'economia degli storicisti non altera il fatto che le inesorabili leggi economiche esistano.
Non potete tenere la vostra torta ed allo stesso tempo mangiarla, per esempio. O ciò che consumate ora non potrà più essere consumato in futuro. O produrre più di un bene richiede di produrre meno di un altro. Nessun pio desiderio può far scomparire tali leggi.
Credere diversamente può provocare soltanto il fallimento pratico. “In realtà,” notava Mises, “la storia economica è una lunga lista di politiche di governo che hanno fallito perché progettate con grande incuranza delle leggi dell'economia.” [3]

Alla luce delle elementari e immutabili leggi economiche, il programma buchananita di social-nazionalismo è solo un altro sogno tanto audace quanto impossibile.
Nessun pio desiderio può alterare il fatto che mantenere le istituzioni centrali dell'attuale stato sociale e voler ritornare alla famiglia, le norme, il comportamento e la cultura tradizionali sono obiettivi incompatibili.
Potete ottenerne uno – il socialismo (welfare) – o l'altro – la morale tradizionale – ma non potete avere entrambi, perché l'economia social-nazionalista, colonna dell'attuale sistema di stato sociale che Buchanan vuole lasciare intatto, è la vera causa delle anomalie culturali e sociali.

Per chiarire questo, è necessario soltanto ricordare una delle leggi più fondamentali dell'economia che dice che ogni ridistribuzione obbligatoria di reddito o di patrimonio, a prescindere dai criteri su cui è basata, comporta il prendere da qualcuno – gli aventi qualcosa – e darla ad altri – i non-aventi di qualcosa.
Di conseguenza, l'incentivo ad essere un avente è ridotto e quello ad essere un non-avente è aumentato.
Ciò che l'avente ha è tipicamente un qualcosa considerato “bene,” e ciò che il non-avente non ha è qualcosa di “male” o una deficienza. Effettivamente, questa è l'idea stessa alla base di ogni ridistribuzione: alcuni hanno troppa roba buona ed altri non abbastanza.
Il risultato di ogni ridistribuzione è che ciascuno quindi produrrà meno bene e sempre più male, meno perfezione e più deficienza. Sovvenzionando con i fondi di imposta (con i fondi presi da altri) la gente che è povera, sarà generata maggiore povertà (male). Sovvenzionando la gente perché disoccupata, sarà generata maggiore disoccupazione (male). Sovvenzionando le madri singole, ci saranno più madri singole e più nascite illegittime (male), ecc.

Ovviamente, questa comprensione di base si applica all'intero sistema della cosiddetta previdenza sociale che è stata applicata nell'Europa occidentale (a partire dagli anni 80 in avanti) e negli Stati Uniti (dagli anni 30): dell'“assicurazione” governativa obbligatoria contro la vecchiaia, la malattia, l'infortunio professionale, la disoccupazione, l'indigenza, ecc.

Insieme con l'ancora più vecchio sistema della pubblica istruzione obbligatoria, queste istituzioni e pratiche equivalgono ad un massiccio attacco all'istituzione della famiglia e della responsabilità personale.

Sollevando gli individui dall'obbligo di provvedere ai propri reddito, salute, sicurezza, vecchiaia ed all'educazione dei bambini, il raggio e l'orizzonte temporale dell'approvvigionamento privato sono ridotti, ed il valore del matrimonio, della famiglia, dei bambini e dei rapporti di parentela è abbassato.

Irresponsabilità, miopia, negligenza, malattia e perfino distruttivismo (mali) sono promossi, mentre responsabilità, previdenza, diligenza, salute e tradizionalismo (beni) sono puniti.

Il sistema obbligatorio di assicurazione per la vecchiaia in particolare, con cui i pensionati (i vecchi) sono sovvenzionati dalle tasse imposte ai guadagnatori di reddito correnti (i giovani), ha indebolito sistematicamente il legame naturale generazionale fra i genitori, i nonni ed i bambini.
I vecchi non hanno più bisogno di contare sull'assistenza dei propri figli se non hanno provvisto alla propria vecchiaia; ed i giovani (con tipicamente meno ricchezza accumulata) devono sostenere i vecchi (con tipicamente più ricchezza accumulata) piuttosto che il contrario, come è tipico all'interno delle famiglie.

Di conseguenza, non solo la gente vuole avere pochi figli – ed in effetti, gli indici di natalità sono caduti alla metà dall'inizio delle moderne politiche di previdenza sociale (welfare) – ma anche il rispetto che i giovani accordavano tradizionalmente ai loro anziani è diminuito, e tutti gli indicatori della disintegrazione e del malfunzionamento della famiglia, quali i tassi di divorzio, illegittimità, pedofilia, abuso del genitore, abuso dello sposo, genitori singoli, solitudine, stili di vita alternativi ed aborto, sono aumentati.

Inoltre, con la socializzazione del sistema sanitario e la regolazione dell'industria assicurativa (limitando il diritto dell'assicuratore al rifiuto: per escludere qualsiasi rischio specifico come non assicurabile e per discriminare liberamente, secondo i metodi attuariali, fra differenti gruppi di rischio) un mostruoso macchinario di ridistribuzione della ricchezza e del reddito a scapito degli individui responsabili e dei gruppi a basso rischio ed in favore degli attori irresponsabili e dei gruppi ad alto rischio è stato messo in moto.
Le sovvenzioni per i malati e gli handicappati allevano la malattia e la disabilità ed indeboliscono il desiderio di lavorare per vivere e di condurre una vita sana.
Non si può far altro che citare l'“economista austriaco morto” Ludwig von Mises una volta di più:

esser malato non è un fenomeno indipendente dalla volontà cosciente. ... L'efficienza dell'uomo non è soltanto un risultato della sua condizione fisica; dipende in gran parte dalla sua mente e dalla sua volontà. ... L'aspetto distruttivo dell'assicurazione contro gli incidenti e le malattie si trova soprattutto nel fatto che tali istituzioni promuovono gli incidenti e le malattie, ostacolano il recupero e molto spesso generano, o ad ogni modo intensificano ed allungano, i disordini funzionali che seguono la malattia o l'incidente. ... Perché sentirsi sano è del tutto diverso da esser sano in senso medico. ... Indebolendo o distruggendo completamente la volontà di stare bene e lavorare, l'assicurazione sociale genera le malattie e l'incapacità di lavorare; produce l'abitudine a lamentarsi – che è in sé una nevrosi – e nevrosi di altri tipi. Come istituzione sociale esso rende la gente ammalata corporalmente e mentalmente o almeno contribuisce a moltiplicare, allungare ed intensifichare la malattia. ... L'assicurazione sociale ha così reso le nevrosi degli assicurati una malattia pubblica pericolosa. Se tale istituzione verrà estesa e sviluppata le malattie si diffonderanno. Nessuna riforma può essere di qualche aiuto. Non possiamo indebolire o distruggere la volontà alla salute senza produrre malattie. [4]

Non desidero spiegare qui l'assurdità economica dell'idea persino più nefasta delle politiche protezioniste (di protezione degli stipendi americani) di Buchanan e dei suoi teorici. Se avessero ragione, il loro argomento per la protezione economica consisterebbe in un atto d'accusa di tutto il commercio e ad una difesa della tesi che ogni famiglia sarebbe più ricca se non scambiasse mai nulla con nessun altro. Certamente, in questo caso nessuno potrebbe mai perdere il lavoro e la disoccupazione dovuta alla concorrenza “sleale” sarebbe ridotta a zero.

Tuttavia una tale società a piena-occupazione non sarebbe prospera e forte; sarebbe composta da persone (famiglie) che, nonostante il lavoro dall'alba al crepuscolo, sarebbero condannate alla povertà e alla fame. Il protezionismo internazionale di Buchanan, anche se meno distruttivo di una politica di protezionismo interpersonale o interregionale, provocherebbe precisamente lo stesso effetto. Questo non è conservatorismo (i conservatori vogliono che le famiglie siano prospere e forti). Questo è distruttivismo economico.

Comunque, quello che dovrebbe essere ormai chiaro è che la maggior parte della degenerazione morale e del declino culturale, se non la loro totalità – i segni della de-civilizzazione – tutto intorno a noi è il risultato inevitabile dello stato sociale e delle sue istituzioni centrali. I conservatori classici e della vecchia scuola lo sapevano e si opposero vigorosamente alla pubblica istruzione ed alla previdenza sociale. Sapevano che gli stati, ovunque, erano intenti a dividere ed infine distruggere le famiglie e le istituzioni, gli strati e le gerarchie dell'autorità che sono il prodotto naturale delle comunità basate sulla famiglia per aumentare e rinforzare il proprio potere. Sapevano che per far ciò gli stati avrebbero dovuto approfittare della ribellione naturale dell'adolescente (giovane) contro l'autorità genitoriale. E sapevano che l'educazione e la responsabilità socializzate erano i mezzi per raggiungere questo obiettivo.

L'educazione e la previdenza sociali forniscono alla gioventù ribelle una via di fuga dall'autorità genitoriale (per potersi dare al continuo cattivo comportamento). I vecchi conservatori sapevano che queste politiche avrebbero emancipato l'individuo dalla disciplina imposta all'interno della comunità e della famiglia soltanto per porlo invece al controllo diretto ed immediato dello stato.

Ancora, essi sapevano, o almeno intuivano, che questo avrebbe condotto ad un infantilizzazione sistematica della società: una regressione, emozionalmente e mentalmente, dall'età adulta all'adolescenza o all'infanzia.

Al contrario, il conservatorismo – social-nazionalismo , populista-proletario di Buchanan mostra una completa ignoranza di tutto ciò. Combinare il conservatorismo culturale e lo statalismo sociale è impossibile e, quindi, un assurdo economico.
Lo statalismo sociale – la sicurezza sociale in ogni sua forma, senso o genere – alleva il declino e la degenerazione morali e culturali.

Di conseguenza, se si è effettivamente preoccupati per il deperimento morale dell'America e si vuole ristabilire la normalità nella società e nella cultura, ci si deve opporre a tutti gli aspetti del moderno stato sociale.

Un ritorno alla normalità richiede niente di meno che l'eliminazione completa del sistema dell'attuale sicurezza sociale: dell'assicurazione contro la disoccupazione, della previdenza sociale, dell'assistenza sanitaria statale, della pubblica istruzione, ecc. – e quindi i quasi totali dissoluzione e smantellamento dell'attuale apparato statale e del potere di governo.

Se si volesse davvero ristabilire la normalità, i fondi ed il potere del governo devono tornare, o persino scendere sotto, ai loro livelli del diciannovesimo secolo. Quindi, i conservatori allineare devono essere fautori del libero arbitrio di linea dura (antistatists). Il conservatorismo alla Buchanan è falso: vuole un ritorno alla moralità tradizionale ma allo stesso tempo sostiene il mantenimento delle stesse istituzioni responsabili della distruzione delle morali tradizionali.

La maggior parte dei conservatori contemporanei, allora, particolarmente fra le fila dei media, non sono conservatori ma socialisti – vuoi della specie internazionalista (gli statalisti nuovi e neo-conservatori del welfare-warfare, ed i globalisti democratici sociali), vuoi della varietà nazionalista (i populisti Buchananiti).

I conservatori genuini devono opporrsi ad entrambi.
Per ristabilire le norme sociali e culturali, i veri conservatori possono soltanto essere libertari radicali e devono chiedere la demolizione – come distorsione morale ed economica – dell'intera struttura dello stato interventista.

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Note


[1] sul conservatorismo americano contemporaneo vedi in particolare Paul Gottfried, The Conservative Movement, rev. ed. (New York: Twayne Publishers, 1993); George H. Nash, The Conservative Intellectual Movement in America (New York: Basic Books, 1976) Justin Raimondo, Reclaiming the American Right: The Lost Legacy of the Conservative Movement (Burlingame, Calif.: Center for Libertarian Studies, 1993);

[2] Samuel T. Francis, "From Household to Nation: The Middle American populism of Pat Buchanan," Chronicles (March 1996): 12-16; vedi inoltre idem, Beautiful Losers:Essays on the Failure of American Conservatism (Columbia: University of Missouri Press, 1993); idem, Revolution from the Middle (Raleigh, N.C.: Middle American Press, 1997).

[3] Ludwig von Mises, Azione umana. “I principi e le maggioranze democratiche,” scrive Mises, “sono ubriachi di potere. Devono ammettere riluttanti di essere soggetti alle leggi della natura. Ma rifiutano la nozione stessa di legge economica. Non sono forse i legislatori supremi? Non hanno il potere di schiacciare ogni avversario? Nessun signore della guerra vuole riconoscere alcun limite tranne quelli a lui imposti con una forza armata superiore. Gli scribi servili sono sempre pronti a promuovere tale compiacenza esponendo le dottrine appropriate. Chiamano le loro disturbate presunzioni ‘economia storica.’”

[4] Ludwig von Mises, Socialism: An Economic and Sociological Analysis (Indianapolis, md.: Liberty Fund, 1981), pp. 43 1-32.
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Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe Empty
MessaggioTitolo: Re: Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe   Il collasso democratico secondo H.H. Hoppe Icon_minitimeGio Feb 25 2010, 15:37

ANCORAUNA PRECISAZIONE: la proprietà privata intesa dall'autore è la proprietà individuale, dallo stesso ritenuta l'unica di valore di valore giuridico reale , laddove la proprietà pubblica-collettiva è un costrutto ideologico artificiale

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Le elité naturali, gli intellettuali e lo stato


Uno stato è un monopolista territoriale coercitivo, un'agenzia che può dedicarsi a continue violazioni istituzionalizzate dei diritti di proprietà ed allo sfruttamento dei proprietari privati tramite espropriazione, tassazione, e regolamentazione.

Ma come nascono gli stati?

Ci sono due teorie sull'origine degli stati.
Una è associata a nomi come Franz Oppenheimer, Alexander Ruestow ed Albert Jay Nock e sostiene che gli stati sono nati come il risultato della conquista militare di un gruppo su un altro. Questa è la teoria dell'origine esogena dello stato.

Ma questa opinione è stata severamente criticata su base storica così come teorica dagli etnografi e dagli antropologi come Wilhelm Muehlmann. Questi critici precisano che non tutti gli stati hanno avuto origine con una conquista esterna.
Effettivamente, i critici considerano l'opinione che i primissimi stati siano stati il risultato della conquista da parte di mandriani nomadi sui coltivatori come cronologicamente falsa. Inoltre, questa interpretazione soffre teoricamente del problema che la conquista in sé sembra presupporre un'organizzazione di tipo statuale fra i conquistatori.
Quindi, l'origine esogena richiede una teoria più fondamentale dell'origine endogena degli stati.

Una tale teoria è stata presentata da Bertrand de Jouvenel.

Secondo il suo punto di vista, gli stati sono la conseguenza delle élite naturali: il risultato naturale delle transazioni volontarie fra i proprietari privati è non-egalitario, gerarchico ed elitista.

In ogni società, alcuni individui acquistano la condizione di élite con il talento.
Grazie ai loro successi in ricchezza, saggezza e valore, questi individui arrivano a possedere un'autorità naturale, ed i loro pareri e giudizi godono di rispetto diffuso.
Inoltre, a causa degli accoppiamenti e matrimoni selettivi, e delle leggi dell'eredità civile e genetica, posizioni di autorità naturale è probabile che si trasmettano all'interno di poche famiglie nobili.
È verso queste famiglie con una lunga storia di grandi successi, di lungimiranza, e di condotta personale esemplare che gli uomini si rivolgono con i loro conflitti e reclami. Questi capi dell'élite naturale fungono da giudici e pacificatori, spesso gratis, per il senso del dovere che ci si attende da una persona di autorità o per l'interesse per la giustizia civile intesa come “bene pubblico” privatamente prodotto.

Il piccolo ma decisivo passo nella transizione verso lo stato consiste precisamente nella monopolizzazione della funzione del giudice e del pacificatore.
Questo è avvenuto quando un singolo membro dell'élite naturale volontariamente riconosciuta fu in grado di ottenere, malgrado l'opposizione di altri membri dell'élite, che tutti i conflitti all'interno di un territorio specifico venissero portati davanti a lui.
Le parti in conflitto non poterono più scegliere un altro giudice o pacificatore.


Origine della monarchia

Una volta che l'origine di uno stato è vista come la conseguenza di un ordine anteriore e gerarchicamente strutturato di élite naturali, diventa chiaro perché l'umanità, fintantoché è stata soggetta ad un governo, è stata sotto la monarchia (piuttosto che la democrazia) per la maggior parte della sua storia.

Ci sono stati eccezioni, naturalmente: la democrazia ateniese, Roma fino al 31 BC, le repubbliche di Venezia, Firenze e Genova durante il Rinascimento, i cantoni svizzeri dal 1291, le Province Unite (Paesi Bassi) a partire dal 1648 fino al 1673 e l'Inghilterra sotto Cromwell.
Ma si trattava di avvenimenti rari e nessuno di loro assomigliava lontanamente ai sistemi democratici moderni, un-uomo-un-voto.
Piuttosto, anch'esse erano altamente elitiste. Ad Atene, per esempio, niente più del 5% della popolazione votava ed era eleggibile per le posizioni di comando.

Solo dopo la fine della Prima Guerra Mondiale l'umanità abbandonò veramente l'era monarchica.

Il potere monopolizzato

Dal momento in cui un singolo membro dell'élite naturale riuscì a monopolizzare la funzione di giudice e pacificatore, la legge e l'applicazione di legge sono diventate più costose.
Invece di essere offerte gratis o in cambio di un pagamento volontario, sono finanziate con la tassazione obbligatoria.
Allo stesso tempo, la qualità della legge si è deteriorata.
Invece di sostenere le antiche leggi della proprietà privata ed applicare i principi universali ed invariabili della giustizia, un giudice monopolistico, che non deve temere di perdere i clienti come risultato dell'essere meno che imparziale, pervertirà la legge attuale a suo proprio vantaggio.

Come è stato possibile questo piccolo ma decisivo passo della monopolizzazione della legge e dell'ordine da parte di un re, che com'era prevedibile ha condotto a prezzi più elevati e ad una qualità inferiore della giustizia?

Certamente, altri membri dell'élite naturale si sarebbero opposti a qualsiasi simile tentativo.
Tuttavia ecco perché gli eventuali re si sono allineati tipicamente con “la gente” o “l'uomo comune.”

Facendo appello al sentimento sempre popolare dell'invidia, i re hanno promesso alla gente una giustizia migliore e meno costosa in cambio e a carico della tassazione dei loro uomini migliori (i competitori del re) riducendone la dimensione.
In secondo luogo, i re hanno chiamato in aiuto la classe degli intellettuali.

Il ruolo degli intellettuali

Ci si poteva aspettare che la domanda di servizi intellettuali sarebbe cresciuta con l'aumento della qualità della vita.
Tuttavia, la maggior parte delle persone si preoccupa di affari piuttosto terreni e mondani e fa scarso uso delle attività intellettuali.

Oltre alla Chiesa, le uniche persone con una domanda dei servizi degli intellettuali erano membri dell'élite naturale – come insegnanti per i loro bambini, consiglieri personali, segretari e bibliotecari.
L'occupazione per gli intellettuali era rischiosa e la paga generalmente bassa.

Ancora, mentre i membri dell'élite naturale erano solo raramente essi stessi intellettuali (cioè, persone che spendono tutto il loro tempo in occupazioni da studioso), ma erano invece persone interessate del comportamento delle imprese terrene, erano in genere intelligenti almeno quanto i loro impiegati intellettuali, così che la stima per i successi dei “loro” intellettuali era piuttosto modesta.

Non sorprende, quindi, che gli intellettuali, soffrendo di un'immagine di sé notevolmente gonfiata, si risentissero di questo fatto.
Quanto era ingiusto che quelli – le élite naturali – a cui loro insegnavano, fossero realmente i loro superiori e conducessero una vita comoda mentre loro – gli intellettuali – erano comparativamente poveri e dipendenti.

Non desta inoltre meraviglia che gli intellettuali potessero essere conquistati facilmente da un re nel suo tentativo di stabilirsi come monopolista della giustizia.
In cambio della loro giustificazione ideologica del governo monarchico, il re poteva non solo offrir loro un'occupazione migliore e di condizione più elevata, ma come intellettuali della corte reale potevano finalmente far pagare alle élite naturali la loro mancanza di rispetto.

Eppure, il miglioramento della posizione della classe intellettuale fu soltanto moderato.

Sotto un governo monarchico, c'era una distinzione definita fra il governante (il re) ed il governato, ed il governato sapeva che non avrebbe potuto mai trasformarsi in governante.
Di conseguenza, c'era una considerevole resistenza non solo delle élite naturali ma anche della gente comune contro qualsiasi aumento nel potere del re.
Era così estremamente difficile per il re riscuotere le tasse e le possibilità d'impiego per gli intellettuali rimanevano altamente limitate.
In più, una volta ben trincerato, il re non curava molto meglio i suoi intellettuali di quanto facessero le élite naturali.
E dato che un re controllava territori molto più grandi di quanto avessero fatto mai le élite naturali, perdere il suo favore era ancora più pericoloso, e ciò rese la posizione degli intellettuali per alcuni versi più precaria.

Un'ispezione delle biografie dei principali intellettuali – da Shakespeare a Goethe, da Cartesio a Locke, da Marx a Spencer – mostra più o meno lo stesso modello: fino a gran parte del diciannovesimo secolo, il loro lavoro era patrocinato da donatori privati, da membri dell'élite naturale, da principi, o da re.
Conquistando o perdendo il favore dei loro garanti, cambiavano di frequente occupazione ed erano geograficamente molto mobili.
Se da un lato questo significava spesso insicurezza finanziaria, ha contribuito non solo ad un cosmopolitismo unico degli intellettuali (come indicato dalla loro competenza nelle numerose lingue), ma anche ad un'insolita indipendenza intellettuale.
Se un donatore o garante non li sosteneva più, ne esistevano molti altri che avrebbero colmato felicemente la lacuna.
In effetti, la vita intellettuale e culturale fioriva maggiormente, e più grande era l'indipendenza degli intellettuali, dove la posizione del re o dell'amministrazione centrale era relativamente debole e quella delle élite naturali era rimasta relativamente forte.

L'ascesa della democrazia

Un cambiamento fondamentale nel rapporto fra lo stato, le élite naturali e gli intellettuali si è avuto soltanto con la transizione dalla monarchia alla democrazia.
Fu il prezzo inflazionato della giustizia e le perversioni della legge antica da parte dei re come giudici e pacificatori monopolistici a motivare l'opposizione storica contro la monarchia.

Ma, quanto alle cause di questo fenomeno, la confusione è prevalsa.

Ci furono coloro che riconobbero correttamente che il problema era nel monopolio, non nelle élite o nella nobiltà.

Tuttavia, sono stati largamente superati nel numero da coloro che incolparono erroneamente il carattere elitista del governo per il problema e che sostennero il mantenimento del monopolio della legge e della sua applicazione e la semplice sostituzione del re e dello sfoggio reale altamente visibile con il “popolo” e la presunta decenza dell'“uomo comune.”
Da qui il successo storico della democrazia.

È molto ironico che il monarchismo si sia distrutto con le stesse forze sociali che i re in primo luogo avevano stimolato ed arruolato quando cominciarono ad escludere le autorità naturali concorrenti dalla funzione di giudice: l'invidia degli uomini comuni contro i migliori ed il desiderio degli intellettuali per il loro presunto posto meritato nella società.

Quando le promesse del re di e giustizia migliore e meno costosa risultarono essere vuote, gli intellettuali rivoltarono i sentimenti egalitari che i re precedentemente avevano sollecitato contro gli stessi governanti monarchici.
Di conseguenza, sembrò logico che anche i re dovessero essere abbattuti, e che le politiche egalitarie, che i monarchi avevano iniziato, dovessero essere portate alla loro ultima conclusione: il controllo monopolistico dell'ordinamento giudiziario da parte dell'uomo comune. Degli intellettuali, questo intendevano loro, come portavoci del popolo.

Come l'elementare teoria economica poteva prevedere, con la transizione dal governo monarchico a quello democratico di un-uomo-un-voto e con la sostituzione del re con il popolo, la situazione si è aggravata.
Il prezzo della giustizia è aumentato astronomicamente mentre la qualità della legge si è deteriorata in modo costante.

Perché questa transizione si è rivelata essere la sostituzione di un sistema di proprietà privata del governo – un monopolio privato – con un sistema di proprietà pubblica del governo – un monopolio pubblico.

Una “tragedia dei comuni” era stata generata.
Tutti, non solo il re, erano ora autorizzati a tentare di arraffare ogni proprietà privata altrui.

Le conseguenze sono state un maggiore sfruttamento del governo (tasse); il deterioramento della legge al punto che l'idea di un corpo di principi universali ed invariabili di giustizia è scomparsa ed è stata sostituita dall'idea della legge come legislazione (legge fatta, piuttosto che trovata e “eternamente data”); e un aumento nel tasso sociale di preferenza temporale (orientamento al presente aumentato).

Un re possedeva il territorio e poteva passarlo al proprio figlio, e provava così a conservarne il valore.
Un governante democratico era ed è un guardiano provvisorio e tenta così di massimizzare ogni tipo di reddito del governo corrente a scapito dei valori capitali, e così spreca.

Ecco alcune delle conseguenze: durante l'era monarchica prima della Prima Guerra Mondiale, la spesa pubblica come percentuale del PIL era raramente superiore al 5%.
Da allora è arrivata tipicamente intorno al 50%.
Prima della Prima Guerra Mondiale, l'occupazione statale era tipicamente meno del 3% dell'occupazione totale.
Da allora è aumentata fra il 15 e il 20%.
L'era monarchica è stata caratterizzata dalla moneta merce (oro) ed il potere di acquisto del denaro aumentava gradualmente. In contrasto, l'era democratica è l'era dei soldi di carta il cui potere di acquisto è permanentemente diminuito.
I re si indebitavano sempre di più, ma almeno durante il tempo di pace riducevano caratteristicamente il loro carico di debito.
Durante l'era del governo democratico il debito è aumentato in guerra e in pace ad altezze incredibili.
I tassi di interesse reale durante l'era monarchica scendevano gradualmente intorno al 2½ %.
Da allora, i tassi di interesse reale (tassi nominali aggiustati sull'inflazione) sono stati in rialzo fino a intorno il 5% – come i tassi del XV secolo. La legislazione virtualmente non è esistita fino alla fine del diciannovesimo secolo.
Oggi, durante un singolo anno, decine di migliaia di leggi e regolamenti vengono approvati.
I tassi di risparmio stanno diminuendo invece di aumentare con l'aumento dei redditi e gli indicatori della disintegrazione della famiglia e del crimine si stanno muovendo costantemente verso l'alto.


Il destino delle élite naturali


Mentre lo stato è andato molto meglio sotto il sistema democratico, e mentre il “popolo” è andato molto peggio da quando hanno cominciato “essi stessi” a governare, che cosa è successo alle élite naturali ed agli intellettuali?
Per quanto riguarda le prime, la democratizzazione è riuscita laddove i re fecero soltanto un modesto inizio: nella distruzione dell'élite e della nobiltà naturali.
Le fortune delle grandi famiglie sono state dissipate con la confisca delle tasse, durante la vita ed al momento della morte.
La tradizione di queste famiglie di indipendenza economica, la lungimiranza intellettuale e la direzione morale e spirituale sono state perse e dimenticate.

Esistono anche oggi gli uomini molto ricchi, ma più frequentemente che no devono direttamente o indirettamente le loro fortune allo stato. Quindi, dipendono spesso dai continui favori dello stato rispetto alle molte persone di ricchezza decisamente minore. ( i capitalisti in senso marxista )
Non sono più in genere i capi di importanti famiglie da lunga data, ma “nuovi ricchi.”

Il loro comportamento non è caratterizzato da virtù, saggezza, dignità, o dal gusto, ma è una riflessione della stessa cultura di massa proletaria orientata al presente, dell'opportunismo e dell'edonismo che i ricchi e famosi ora condividono con tutti gli altri.
Di conseguenza - e grazie al cielo – i loro pareri non hanno maggior peso nell'opinione pubblica di quelli della maggior parte dell'altra gente.

La democrazia ha realizzato quello che Keynes aveva soltanto sognato: “l'eutanasia della classe redditiera.” La dichiarazione di Keynes che “a lungo termine saremo tutti morti” esprime lo spirito democratico del nostro periodo: edonismo orientato al presente.
Anche se è perverso non pensare oltre la propria vita, tale pensiero è diventato tipico.
Invece di nobilitare i proletari, la democrazia ha proletarizzato le élite e ha pervertito sistematicamente il pensiero ed il giudizio delle masse.

Il destino degli intellettuali

Dall'altro lato, mentre le élite naturali venivano distrutte, gli intellettuali hanno guadagnato una posizione più prominente e più potente nella società.

Effettivamente, in larga misura hanno realizzato il loro obiettivo e si sono trasformati nella classe dirigente, controllando lo stato e funzionando come giudice monopolistico.

Questo non vuol dire che i politici democratico scelti sono tutti intellettuali (anche se ci sono al giorno d'oggi certamente più intellettuali che diventano presidenti di quanti ce ne furono che diventarono re.)
Dopo tutto, essere un intellettuale richiede abilità e talenti in qualche modo diversi da quelli necessari per affascinare le masse ed essere un raccoglitore di fondi di successo.
Ma persino i non-intellettuali sono i prodotti dell'indottrinamento delle scuole finanziate dalle tasse, delle università e degli intellettuali occupati nel pubblico, e quasi tutti i loro consiglieri arrivano da questo ambiente.


Non ci sono quasi economisti, filosofi, storici, o teorici sociali di rango occupati privatamente dai membri dell'élite naturale.
E quei pochi della vecchia élite che rimangono e che potrebbero comprare i loro servizi non possono più permettersi finanziariamente gli intellettuali.

Invece, gli intellettuali sono ora in genere impiegati pubblici, anche se lavorano per istituzioni o fondazioni nominalmente private.
Quasi completamente protetti dal capriccio della domanda dei consumatori (“impiegato di ruolo”), il loro numero è aumentato drammaticamente e la loro compensazione è in media molto al di sopra del loro genuino valore di mercato.
Allo stesso tempo la qualità della loro produzione intellettuale è calata costantemente.

Quello che scoprirete è principalmente irrilevanza ed incomprensibilità. Peggio, quando l'attuale produzione intellettuale è del tutto rilevante e comprensibile, è viziosamente statalista.

Ci sono eccezioni, ma se praticamente tutti gli intellettuali sono occupati nelle molteplici ramificazioni dello stato, non dovrebbe sorprendere che la maggior parte della loro sempre più voluminosa produzione sia, per commissione o per omissione, propaganda statalista.

Ci sono in giro oggi più propagandisti del sistema democratico di quanti ce ne siano stati del sistema monarchico in tutta la storia dell'umanità.

Questa spinta apparentemente inarrestabile verso lo statalismo è illustrata dal destino della cosiddetta Scuola di Chicago: Milton Friedman, i suoi predecessori, e i suoi seguaci.

Negli anni 30 e 40, la Scuola di Chicago era ancora considerata di sinistra, e giustamente, considerando che Friedman, per esempio, sosteneva la necessità di una banca centrale e dei soldi di carta al posto della parità aurea. Sottoscrisse con entusiasmo il principio dello stato sociale con la sua proposta di un reddito minimo garantito (imposta negativa sul reddito) al quale non poté fissare un limite. Sostenne l'imposta progressiva sul reddito per realizzare i suoi obiettivi esplicitamente egalitari (e aiutò personalmente ad implementare la ritenuta d'acconto). Friedman appoggiò l'idea che lo stato potesse imporre delle tasse per finanziare la produzione di tutte le merci che avessero un effetto ambientale positivo o che egli pensava lo avessero.

Ciò implica, naturalmente, che non c'è quasi niente che lo stato non possa finanziare con le tasse!

In più, Friedman ed i suoi seguaci erano fautori della più superficiale di tutte le filosofie superficiali: il relativismo etico ed epistemologico.
Non esistono verità morali definitive e tutta la nostra conoscenza effettiva e empirica è, nel migliore dei casi, solo ipoteticamente vera.
Tuttavia non hanno mai dubitato che ci debba essere uno stato e che lo stato debba essere democratico.

Oggi, mezzo secolo dopo, la Scuola di Chicago e di Friedman, senza essenzialmente aver cambiato alcuna delle sue posizioni, è considerata di destra ed a favore del libero mercato.
In effetti, tale scuola costituisce il limite ultimo dell'opinione rispettabile nella destra politica, che soltanto gli estremisti attraversano.

Tale è la dimensione del cambiamento nell'opinione pubblica che gli impiegati pubblici hanno determinato.

Considerate altri indicatori della deformazione statalista determinata dagli intellettuali.

Se diamo uno sguardo alle statistiche elettorali, generalmente troveremo la seguente immagine:

-più tempo una persona passa negli istituti scolastici, qualcuno con una laurea, per esempio, rispetto a qualcuno con soltanto un diploma, più è probabile che questa persona sia ideologicamente statalista e voti democratico.

-Inoltre, maggiore la quantità di tasse usate per finanziare l'educazione, più in basso cadranno i risultati del SAT [test attitudinale scolastico, NdT] e di altre simili misure della prestazione intellettuale, e sospetto che ancora di più declineranno gli standard tradizionali di condotta morale e di comportamento civile.

-Oppure considerate il seguente indicatore: nel 1994 è stata chiamata una “rivoluzione,” ed il Presidente della Camera, Newt Gingrich, è stato chiamato un “rivoluzionario,” quando appoggiò il New Deal e la previdenza sociale, ed elogiò la legislazione sui diritti civili, in altre parole la discriminazione positiva e l'integrazione forzata che è responsabile della distruzione quasi totale dei diritti della proprietà privata, e dell'erosione della libertà di contratto, di associazione e dissociazione.

Che razza di rivoluzione è quella in cui i rivoluzionari hanno accettato di tutto cuore le premesse stataliste causa dell'attuale disastro?
Ovviamente, questa può essere identificata come rivoluzione soltanto in un ambiente intellettuale inerentemente statalista.

Storia & idee

La situazione sembra disperata, ma non è così.

In primo luogo, deve essere riconosciuto che tale situazione difficilmente può continuare per sempre.
L'era democratica non può affatto essere “la fine della storia,” come i neoconservatori ci vogliono far credere, dal momento che c'è anche un lato economico del processo.

Gli interventi sul mercato causeranno inevitabilmente più problemi di quelli che si suppone debbano curare, il che conduce a sempre più controlli e regolamentazioni finché, alla fine, non avremo raggiunto il socialismo completo.

Se la tendenza attuale continua, si può prevedere sicuramente che gli stati sociali democratici occidentali sprofonderanno come ha fatto la “repubblica popolare” dell'est verso la fine degli anni 80.

Per decenni, i redditi reali nell'occidente hanno ristagnato o sono persino calati.
Il debito di governo ed il costo dei programmi di “sicurezza sociale” ci hanno portato sull'orlo della dissoluzione economica.
Allo stesso tempo, il conflitto sociale è aumentato a livelli pericolosi.

Forse si dovrà aspettare un crollo economico prima che la corrente tendenza statalista cambi.
Ma anche nel caso di un crollo, è necessario qualcosa di diverso.

Un collasso non provocherebbe automaticamente una riduzione dello stato.
I problemi potrebbero aggravarsi.

Ad essere necessarie, oltre ad una crisi, sono le idee – idee corrette – ed uomini capaci di comprenderle e di attuarle quando l'occasione si presenta.

Ma se il corso della storia non è inevitabile (e non lo è) allora una catastrofe non è né necessaria né inevitabile.
Alla fine, il corso della storia è determinato dalle idee, che siano vere o false, e dall'uomo che agisce ispirato da idee vere o false.

Solo quando le idee false governano la catastrofe è inevitabile.

D'altra parte, una volta che le idee corrette sono state adottate e prevalgono nell'opinione pubblica – e le idee possono, in linea di principio, essere cambiate quasi istantaneamente – la catastrofe non dovrà affatto accadere.

Il ruolo degli intellettuali

Questo mi porta al ruolo che gli intellettuali devono assumersi nel necessario cambiamento radicale e fondamentale dell'opinione pubblica ed il ruolo che anche i membri delle élite naturali, o di chiunque sia rimasto di esse, dovranno giocare.

Le richieste per entrambi i lati sono grandi, tuttavia, per quanto grandi possano essere, per impedire una catastrofe o per uscirne con successo, queste richieste dovranno essere accettate da entrambi come loro dovere naturale.

Anche se la maggior parte degli intellettuali sono stati corrotti e sono in gran parte responsabili delle attuali perversità, realizzare una rivoluzione ideologica senza il loro aiuto è impossibile.

Il governo degli intellettuali pubblici può essere abbattuto soltanto da intellettuali anti-intellettuali.

Fortunatamente, le idee della libertà individuale, la proprietà privata, la libertà di contratto e di associazione, la responsabilità personale e l'idea che il potere di governo sia il principale nemico della libertà e della proprietà, non moriranno finché esiste una razza umana, semplicemente perché sono vere e la verità si autosostiene.
Ancora, i libri dei pensatori del passato che espressero queste idee non scompariranno.
Tuttavia, è anche necessario che ci siano pensatori viventi che leggono tali libri e che possono ricordare, riesporre, riapplicare, migliorare e diffondere queste idee e che siano capaci e desiderosi di dar loro voce e di opporre apertamente, attaccare e confutare i loro colleghi intellettuali.

Di questi due requisiti – competenza intellettuale e carattere – il secondo è il più importante, particolarmente in questo momento.

Da un punto di vista puramente intellettuale, la questione è comparativamente facile.

La maggior parte degli argomenti statalisti che ascoltiamo ogni giorno che passa sono facilmente confutate come assurdità economiche più o meno grandi.

Non è inoltre raro incontrare degli intellettuali che in privato non credono a ciò che affermano con grande fanfara in pubblico.
Non è che sbaglino.
Deliberatamente dicono e scrivono cose che sanno essere false.
Non mancano di intelletto; mancano di morale.

Ciò a sua volta implica che si debba essere preparati a combattere non solo la falsità ma anche la malvagità – e questa è un'operazione molto più difficile e più audace.
Oltre ad una migliore conoscenza, richiede coraggio.

Come intellettuale anti-intellettuale, ci si può attendere delle bustarelle – ed è stupefacente quanto facilmente qualche persona possa venir corrotta: poche centinaia di dollari, un viaggio piacevole, una foto con il grande e potente sono tutte cose troppo spesso sufficienti per convincere la gente a vendersi.
Tali tentazioni devono essere rifiutate come spregevoli.
Inoltre, nel combattere la malvagità, si deve essere disposti ad accettare di non aver probabilmente mai “successo.”
Non ci sono ricchezze in serbo, nessuna magnifica promozione, nessun prestigio professionale.

In effetti, la “fama” intellettuale dovrebbe essere considerata con il massimo sospetto.

Il ruolo delle élite naturali

Ed è qui che ciò che resta delle élite naturali entra in gioco.
I veri intellettuali non possono fare quello che devono fare senza le élite naturali.

Una volta, nell'era pre-democratica, quando lo spirito di egalitarismo non aveva ancora distrutto la maggior parte degli uomini dalla ricchezza indipendente e dalle menti e giudizi indipendenti, questa opera di appoggio degli intellettuali impopolari era svolta dagli individui.

Ma chi può al giorno d'oggi permettersi, senza aiuto, di occupare privatamente un intellettuale, come suo segretario, consigliere, o insegnante personale dei suoi bambini?
E coloro che ancora possono spesso sono profondamente coinvolti nella sempre più corrotta alleanza governo-mondo finanziario, e promuovono gli stessi intellettuali cretini che dominano le accademie stataliste.
Pensate solo a Rockefeller ed a Kissinger, per esempio.

Di conseguenza, l'opera di sostenere e di mantenere vive le verità della proprietà privata, della libertà di contratto e di associazione e dissociazione, della responsabilità personale e del combattere le falsità, le menzogne e la malvagità dello statalismo, del relativismo, della corruzione morale e dell'irresponsabilità, al giorno d'oggi può essere intrapresa soltanto collettivamente riunendo le risorse e sostenendo organizzazion indipendenti dedicate ai valori di fondo della civiltà occidentale, intransigente e lontana persino fisicamente dai corridoi del potere che con il suo programma di borse di studio, di insegnamento, di pubblicazioni e di congressi non propone niente di meno che un'isola di decenza morale ed intellettuale in un mare di perversione.
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