VERSO QUALE SOVRANITÀ?
L'agenda Monti, cioè l'insieme di fase delle politiche di commissariamento euroatlantico, dovrà proseguire. Con o senza di lui. Alla vigilia delle dimissioni del governo da lui presieduto, Mario Monti, allo stabilimento Fiat di Melfi, incassa –senza sorprese– il sostegno dell'amministratore delegato Fiat, Sergio Marchionne. Un asse ferreamente atlantista per il prosieguo di una linea che è il ruolino di marcia prescritto dalla triade euroamericana UE-BCE-FMI. Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, lo ha già detto: «
il prossimo governo italiano non ha altra scelta che continuare le stesse politiche del governo Monti». «
Siamo solo all'inizio delle riforme strutturali», la rassicurazione inquietante di Monti che, ai primi di dicembre, intervistato a Lione dal canale satellitare Euronews, affermava che «
prima di entrare nell'euro, la Grecia era l'antitesi di una moderna economia di mercato. Ora grazie all'euro ha intrapreso una vera rivoluzione». Un'ossessione ed un modello, per lui, la Grecia: «
Oggi secondo me stiamo assistendo, non è un paradosso, al grande successo dell’euro… e qual è la manifestazione più concreta del grande successo dell’euro?… La Grecia!» (26 settembre 2011). Delirio? No. Sarcasmo? Men che meno. Trattasi di cinico disegno politico. È lo stesso ineffabile a chiarirlo: «
Nei momenti di crisi più acuta, i progressi sono più sensibili. E qui naturalmente io ho una distorsione che riguarda l'Europa ed è una distorsione positiva che riguarda l'Europa. Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti della sovranità nazionale ad un livello comunitario. È chiaro che il potere politico ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale possono esser pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c'è una crisi in atto visibile e conclamata (…); ma quando una crisi sparisce, rimane un sedimento, perché si sono messi in opera istituzioni, leggi, eccetera, per cui non è pienamente reversibile» (intervento al convegno della Luiss Guido Carli “
Finanza: Comportamenti, Regole, Istituzioni”, 22 febbraio 2011).
Parole inequivocabili che rimandano all'utilizzo politico delle crisi finanziarie, ai non casuali interventi speculativi sul denaro e sui titoli, alla facilità del conseguimento di obiettivi politici –da un mutamento di governo all'esposizione di uno Stato ad una (maggiore) dipendenza– quando preventivamente lo si sia privato, ad esempio con le prescrizioni dell'Unione Europea, di strumenti protezionistici finanziari. Crisi conseguentemente economiche, in parte quindi indotte, in parte consustanziali al sistema monetarista e liberoscambista dell'Unione Europea, con la sua dinamica strategica da
indebitamento perpetuo quale veicolo coercitivo di indirizzo (geo)politico atlantico.
In Italia, in poco più di un anno, con il governo più classista del periodo repubblicano, le ricette eurounioniste hanno portato il paese in recessione, acuito il già peggiorante andamento delle condizioni di vita di larghi strati popolari, aggravato l'esposizione debitoria del Paese, a fronte –contro ogni logica in una fase critica– di una notevole crescita del gettito fiscale dovuta a prelievi e gabelle di sapore medievale senza precedenti. Il tutto si avviterà al ribasso con l'entrata a regime dell'insensato, prescrittivo pareggio di bilancio inserito nella Costituzione italiana. Non esiste precedente storico di Stati che, per perseguire obiettivi di crescita, si siano vincolati rigidamente al rispetto della parità di bilancio.
Il senso del degrado politico di questo Paese sta nelle fittizie confliggenze tra centrodestra e centrosinistra degli ultimi vent'anni, che hanno condiviso le stesse politiche di fondo euroatlantiche e liberiste, come ben si è evidenziato nel loro sostegno all'ultimo esecutivo, ammantato di un'aurea 'tecnica', suppostamente
super partes e competente. Un fantasmagorico "Professore", con un curriculum di consulenze per le più importanti banche e società finanziarie del mondo (Goldman Sachs, Deutsche Bank, Morgan Stanley, Credit Agricole), che in un anno è stato capace di far uscire dalle casse fiumi di soldi garantendo, per conto dello Stato, prestiti e obbligazioni bancarie con il decreto salva-Banche, elargendo poi miliardi alla Morgan Stanley per dei contratti derivati, quindi dilapidandone altri per soccorrere la Monte Paschi di Siena con acquisto di sue obbligazioni spazzatura, quindi altri ancora (ben 10, come inizio) per il fondo del
pizzo euroatlantico MES (Meccanismo Europeo di Stabilità, ESM).
È possibile ritenere che i tenutari anche funzionarili del potere politico ed economico non sappiano dell'avvitamento al ribasso della spirale debito-rigore-tasse-calo del Pil-calo dei consumi-deflazione-ancora più debito? È possibile che non sappiano che, con il puntare alla riduzione del debito tramite misure che riducono capacità d’acquisto e tenore di vita della maggior parte della popolazione, con un’inflazione in costante risalita non indicizzata a salari, stipendi e pensioni, con l'innalzamento del prelievo fiscale, con la compressione del reddito per famiglie e imprese, l'ovvia conseguenza è la caduta degli investimenti, la chiusura dei luoghi della produzione, il drastico ridimensionamento della domanda e una spirale che aggrava la crisi economica reale e collassa le società? Certo che lo sanno. È evidente dunque che, a finalità meramente congiunturali di profitto, sovrintendono ragioni politiche, geostrategiche che rimandano in ultima istanza ai vertici USA, la potenza centrale cui appartiene in via subalterna anche il nostro Paese.
Anche il crescendo di banalità sulle ragioni di fondo di questa crisi finanziaria, addotte da presunti “esperti” e supposti “tecnici”,
è parte di questa strategia, sia quando si favoleggia di sforzi congiunti dei vari paesi (ognuno in realtà perseguendo propri interessi nei margini di azione consentiti), sia quando si attribuiscono responsabilità ora alla Cina (mancata svalutazione della propria moneta), ora alla Germania che dominerebbe nella UE e imporrebbe scelte dannose agli altri paesi, in particolare all’Italia. È vero semmai che, rispetto a quelli di altri paesi, il sistema capitalistico tedesco ha sino ad ora tratto maggiori vantaggi (o minori penalizzazioni) dal mercato unico europeo e dall’introduzione dell’euro. Ciò tuttavia non significa affatto che le modalità del processo di integrazione europea siano il risultato puro e semplice degli interessi capitalistici teutonici. Di rado, e mai investigate, le manovre degli Stati Uniti e della sua Federal Reserve (la Banca Centrale Federale) nonché i diversi motivi per cui stiano scaricando la crisi su altri paesi della propria area diretta d'ingerenza. Il meccanismo europeo è ideale nel facilitare tali operazioni, nel consentire, ad esempio, che i movimenti extra-nazionali di capitali siano un fattore dirompente molto più di tutte le caste e relative corruzioni.
Eppure, nonostante l'evidenza dei fatti, è
in nome dell'Europa il
refrain salmodiante che l'Italia debba proseguire su questa strada, che debba farlo per non vanificare i
sacrifici compiuti, confidando non si sa bene su che basi –nel mentre la crisi si aggrava– sull'uscita da un tunnel di cui mai si vede la fine ed anzi persistendo il peggioramento di tutti gli indicatori sociali, economici, contabili: PIL in caduta costante; aumento del numero dei disoccupati, dei cassaintegrati, dei lavoratori a orario ridotto; crollo generalizzato degli investimenti, dei consumi, della produzione industriale, con percentuali differenziate per comparti; peggioramento dei conti pubblici; inflazione in crescita. A tutto questo dominanti esteri e sub/dominanti interni reiterano un fideismo monetarista che risponde a interessi geopolitici di uno Stato (gli USA) e di oligarchie imprenditoriali e finanziarie, estranee agli interessi della dominata collettività nazionale nella sue diverse stratificazioni sociali. La tendenza all'aumento del debito ed il peggioramento dei conti sono destinati a comportare ulteriori manovre e l'adozione di provvedimenti straordinari.
È tutto questo al centro del dibattito politico? No, e men che meno della campagna elettorale che si sta per aprire. Prevedibilmente, piuttosto, a caratterizzarla, è il
ritorno di Berlusconi sulla scena politica, diversivo reale per berlusconiani ed antiberlusconiani di una contesa, sul proscenio, che resta sostanzialmente tra frazioni atlantiche che si offrono come migliori serventi ai pre-dominanti centrali della nostra Patria.
Allo stesso tempo, è un contro senso tuonare contro il rigore e l'austerità, contro la natura predatrice e impoverente dei Trattati europei, ultimi e più devastanti il MES e il Fiscal Compact (che riduce il limite all’indebitamento annuo dal 3% allo 0,5%) senza rompere con la gabbia europea e (ri)conquistare la sovranità politica, democratica, economica. Agli eurounionisti che replicano ventilando scenari catastrofistici, ma rimuovendo i disastri reali che hanno provocato e che si stanno aggravando con il passar del tempo, si possono contrapporre casi ben diversi, come quello dell'Argentina. Qui al fallimento si arrivò grazie anche e soprattutto all’aggancio rigido con il dollaro e relativi effetti (corrispettivo delle politiche di eurizzazione). Con lo sganciamento dal corrispettivo sistema economico-finanziario che sta facendo implodere l'Italia, quel Paese ha registrato negli anni successivi miglioramenti sotto molteplici profili, non solo quello dell'aumento del reddito pro-capite.
È questo conflitto di fondo tra dipendenza e sovranità, per quanto dissimulato o negato, che è destinato a diventare centrale. Sempre più si affermerà come ineludibile la necessità di sciogliere il 'nodo' decisivo che riguarda la questione della rescissione –il più rapida possibile– dai Trattati europei, l'uscita dal sistema europeo della moneta unica, la ripresa della sovranità monetaria e della gestione indipendente, sovrana, incisiva, delle principali leve decisionali in campo politico ed economico, con l'indispensabile premessa della rimozione dell'intera trasversale classe sub/dirigente atlantica che ha svenduto beni, futuro e vite della nostra Patria.
Per questo scenario bisogna prepararsi ed attrezzarsi. Il campo sovranista sarà attraversato da due opzioni distinte: quella di chi tenterà di rinverdire un modello, che questo Paese ha conosciuto, di capitalismo mediato da un forte intervento statale (opzione che troverà sponde politiche interessate
anche negli ambienti della destra radicale) e quella di chi punterà ad una prospettiva molto più avanzata. Sarà un terreno dove ci sarà bisogno di tutta l'intelligenza politica –teorica ed operativa– per costruire il massimo di massa critica e allo stesso tempo potenziare un indirizzo politico di liberazione che non sia svuotato dall'affermarsi di pulsioni sì antieuropeiste ma di matrice liberal-liberista e che non ceda alle prospettive nostalgiche del modello politico-sociale dell'Italia degli anni '50 e '60. Modello quest'ultimo –peraltro mitizzato– di buona parte della cosiddetta Prima Repubblica che ha espresso figure e forze certo di ben altra statura rispetto alle attuali, pur tuttavia complici della condizione di sudditanza coloniale di questo paese e responsabili, per tutta una serie di atti politici, del maturare dello scenario attuale che affonda le sue radici ben prima dell'euro e del Trattato di Maastricht. Quel compromesso di derivazione keynesiana tra capitale e lavoro –che oggi risulterebbe fuori tempo massimo–, inoltre, fu reso possibile dal contesto internazionale di Guerra Fredda dell’epoca (erodere consensi al PCI e scongiurare che si creasse una maggioranza politica ostile alla collocazione geo-politica dell’Italia nel campo atlantico), non dal fatto che la classe dirigente di allora fosse patriottica o sovranista, e tanto meno avesse un profondo ed avanzato sentire sociale. Subalternità geopolitica che si tramuta in una stretta dei vincoli di dipendenza, quando la controparte sovietica inizia a mostrare segni di crisi. Stretta che si intensifica con la caduta del muro di Berlino e –più recentemente– con l’emergere di potenze potenzialmente concorrenti, capaci di mettere in discussione l’unipolarismo americano. Il processo di integrazione europea è lo strumento della dominazione americana e come tale è concepito sin dagli anni ’50. E in quegli anni le forze politiche che si distinguono per sposare più convintamente gli “ideali” europeisti sono i partiti atlantisti: democristiani, liberali, repubblicani, socialdemocratici, anche i socialisti. Le basi della più accentuata dipendenza attuale furono gettate allora.
Sarà necessario quindi operare con intelligenza, perché quando l'idea sovranista si sarà fatta idea-forza nella società italiana, non qualunque sua versione e nemmeno qualsiasi alternativa all’europeismo è detto che vada bene. Dovremo essere preparati a che non ci si lasci irretire o suggestionare da pulsioni antieuropeiste di realtà politiche liberal-liberiste che potrebbero maturare –saldandosi anche a spezzoni di classi dominanti– per contrattare uno status di dipendenza a condizioni più vantaggiose direttamente con il padrone americano e senza essere inquadrati nell’UE. Si rende quindi assolutamente fondamentale definire
quale sovranismo perseguire, avendo di vista gli interessi reali e generali della nostra società, ed essere attrezzati anche sul piano dell'organizzazione politica. Non si tratta solo di rivendicare una centralità propulsiva dello Stato e nemmeno limitarsi all’indicazione di una spesa pubblica che sappia rinvigorire la domanda privata in caduta e che funga da volàno per una ripresa dell'economia, ma di intervenire anche nella qualità e nella natura delle scelte, nell'organizzazione produttiva, mercantile e delle relazioni sociali, nella definizione di una direzione politica e di un progetto strategico di società, nella necessaria costituzione di blocchi sociali orientati al conseguimento di mutamenti radicali dei rapporti sociali. Non si tratta di agitare etichette o slogan, ma sui contenuti definire gli assi strategici di un percorso di riconquista della sovranità relazionato ad un progetto di società. Ad esempio: eliminazione delle modifiche alla Costituzione introdotte negli ultimi anni; banca pubblica non autonoma; separazione tra banche commerciali e banche d'investimento; vincoli di portafoglio per le banche commerciali; moneta nazionale; quale politica industriale, commerciale e fiscale; protezionismo finanziario; reintroduzione di misure di controllo sulla circolazione dei capitali in entrata ed in uscita; nazionalizzazione o creazione di industrie di Stato nei settori strategici (ricerca, energia, farmaceutica, telefonia, telecomunicazioni, ferrovie, autostrade, reti di servizi, ecc.); riscrittura dei rapporti di lavoro; governo delle dogane da parte dello Stato italiano; riorientamento della politica e relazioni estere (sganciamento dall'Alleanza Atlantica in primis); asse culturale nazionale sulla scuola; riassetto pubblico della sanità e della previdenza; equo canone sulla casa d'abitazione; grandi opere di risanamento e cura del territorio nazionale; uscita dalla PAC e tutela dell’agricoltura italiana; forme di tutela del commercio, delle libere professioni e della piccola impresa; eccetera.
È questa la grande sfida che ci aspetta, per affrontare la quale non da oggi operiamo. Patria e socialismo sono un binomio che spaventa le classi dominanti euroatlantiche e ceti sub/dominanti interni di riferimento: la rivendicazione della sovranità (patria libera e indipendente) è principale; il rivendicazionismo di classe, la liberazione sociale (socialismo), è fondamentale.
Indipendenza
25 dicembre 2012