Speculazione finanziaria, debito estero, sudditanza euroatlantica. Note di orientamento
Ancora nel mirino della speculazione per la crisi del debito, i rischi che l'Italia si avvii verso la bancarotta, e finisca come la Grecia, sono alti. A questo si sta arrivando grazie all'euro, ai diktat di BCE-FMI e alle agenzie di
rating (cioè grazie alla finanza anglosassone) e a chi ha concorso a svendere ulteriormente la sovranità di questo paese. Intanto si vuole che passi la manovra economica senza riduzioni dell'importo. Ecco perché Napolitano (si scrive convenzionalmente "
presidente", ma si legge "
governator of Italy, banana-republic of United States of America"), voce suadente (e pelosa) dei "mercati" atlantici, chiede «
serietà». Chiede cioè che la manovra la si approvi così com'è. Intanto passa quest'altra, poi se ne richiederà un'altra ancora di tagli&affini, e poi un'altra ancora. Da qui, quindi, lo strumentale appello alla «
coesione nazionale», cioè ad un accordo trasversale tra parti politiche e sociali (sindacati in primis) sub/dominanti che gli "interessi nazionali" non sanno nemmeno dove stanno di casa.
Tutto questo, ci vien detto, è necessario per ripianare l'elevato debito. Obiettivo, si aggiunge, è il pareggio di bilancio. Che però non sarà mai raggiunto. Il vero problema, infatti, non sta tanto nell'entità del debito pubblico quanto nella spesa per interessi ad esso connessa, che è il vero
buco nero inestinguibile perché si autoalimenta secondo logiche esponenziali usuraie nello scenario determinato dal processo d’integrazione monetaria europea.
E' bene ricordare che se i cittadini si indebitano con il proprio Stato, sottoscrivendo quindi titoli
statali (situazione vigente in Italia fino a qualche decennio fa), il
debito pubblico è contemporaneamente un
credito pubblico; tale
passività dello Stato risulterebbe nello stesso tempo un’
attività per tutti i “cittadini” –dal piccolo risparmiatore agli istituti industriali e finanziari– possessori di titoli di Stato. Insomma, il debito pubblico si configura come il “
debito che la mano destra deve alla mano sinistra” di cui parlava l’economista Jean-François Melon. Il pericolo di bancarotta (paventato sempre in modo interessato) lascia il tempo che trova: la pratica dei rimborsi di titoli pubblici ha mostrato che lo Stato si può in teoria indebitare all’infinito rinnovando ad ogni scadenza il debito con i propri “cittadini”. Utilizzando il ricavato derivante dall’emissione di nuovi titoli, può estinguere quelli vecchi.
Non si è mai visto, infatti, uno Stato che
va in fallimento nei confronti di propri cittadini od imprese.
Se la remunerazione dei titoli non è particolarmente allettante, per non innalzare il costo delle emissioni lo Stato potrebbe allora, come negli anni Settanta, farsi finanziare dalle banche. Per ridurre drasticamente i rimborsi di titoli, potrebbe persino ricorrere a misure di
consolidamento, che cioè congelano il rimborso del debito garantendo comunque il pagamento degli interessi. Tali misure certamente accenderebbero conflitti politici, ma escludono l’ipotesi di bancarotta. Non dimentichiamoci infine che, emettendo titoli, ci si impegna semplicemente a rimborsare una determinata somma di denaro: la Banca Centrale potrebbe dunque creare, ossia
stampare, il denaro occorrente. Questa creazione di moneta, ora vietata dalle normative di Maastricht, può causare inflazione, ma il rischio di bancarotta è comunque escluso.
Quindi, se i titoli di uno Stato
effettivamente sovrano sono sottoscritti da suoi cittadini, il debito pubblico non è né un
peso economico, né rappresenta un
pericolo per l’economia nazionale. Il discorso cambia completamente se il debito pubblico viene contratto con investitori esteri. Questo non si configurerebbe più come
credito pubblico, bensì come
debito estero.
Nell'Italia prima dell'euro la politica economica si basava
- sull’utilizzo dell’inflazione e della spesa in disavanzo, nei conti pubblici, al fine di attutire i conflitti sociali e sostenere le grandi imprese;
- sulla svalutazione della lira, in particolare nei confronti delle valute europee, al fine di rendere competitive le esportazioni;
- sul controllo diretto del credito, i finanziamenti della Banca d’Italia e le restrizioni sui movimenti di capitale, al fine di ridurre la spesa per interessi sul debito pubblico.
Di fatto il mercato finanziario italiano venne così isolato da quelli internazionali. Un
isolamento che, al contrario di quanto affermano le teorie neoliberiste, non ha prodotto (in un quadro capitalistico con altro tipo di problematiche) il progressivo sfaldamento sociale che stiamo conoscendo da alcuni decenni, ma ha permesso di contenere gli effetti negativi indotti da eventi esterni.
La liberalizzazione dei movimenti di capitale, obiettivo fondamentale dei Trattati europei, oltre ad aver avviato la crescita esponenziale del rapporto Debito pubblico/PIL, ha aperto ampi spazi agli investitori esteri,
liberi di investire e disinvestire senza restrizioni. La posizione debitoria netta verso l'estero dell'Italia, praticamente nulla all'ingresso dell'Italia nello SME, è andata progressivamente crescendo negli anni successivi. Nello specifico dei titoli di debito pubblico, se negli anni Ottanta i risparmiatori italiani, incentivati dalle alte remunerazioni, dall'anonimato e dalle esenzioni fiscali, risultavano ancora i maggiori acquirenti, la situazione si capovolge negli anni Novanta. Le conseguenze derivanti dal processo d’unificazione europea sono analoghe a quelle scaturenti dai cosiddetti programmi di
aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) negli Stati ad esempio dell’America Latina o del Sud-Est asiatico. Programmi con cui tali Stati, costretti ad accedere ai prestiti-usurai dell’FMI, si sono visti
rimodellare in profondità ed in peggio gli elementi portanti del proprio sistema economico.
Molte delle condizioni politico/economiche che il FMI –istituto fattivamente operante nel quadro degli interessi statunitensi– ha imposto
lì con tali programmi, sono veicolate
qui dal processo d’unificazione europea:
- imposizione di vincoli sul disavanzo di bilancio (comportanti anche il taglio degli investimenti pubblici, l’abolizione dei sussidi e delle sovvenzioni per le imprese statali e lo smantellamento dello Stato sociale);
- abolizione di controlli di Stato sull’economia;
- liberalizzazione dei movimenti dei capitali finanziari privati;
- “indipendenza” della Banca Centrale dalle autorità politiche;
- privatizzazioni dei servizi pubblici e dei settori strategici;
- deregolamentazione di prezzi e tariffe;
- libertà d’azione per le grandi multinazionali industriali e finanziarie estere.
In sintesi: lo smantellamento di pezzi decisivi di sovranità economica e finanziaria. Tali programmi, ricordiamo, hanno infine accresciuto il debito estero degli Stati asserviti al dominio politico e finanziario americano e peggiorato drasticamente le condizioni di vita delle rispettive popolazioni, che hanno tra l’altro assistito ad un rilevante aumento del costo della vita.
Nelle relazioni tra debitori e creditori, le strutture dei mercati di capitali liberalizzati rovesciano i rapporti di forza a favore dei secondi. Prendere denaro in prestito sui mercati significa sottomettersi al loro verdetto. Dall'imposizione di tassi d'interesse i più bassi possibili alla sanzione di qualunque scostamento dal deficit di bilancio, passando per l'interdizione del suo finanziamento monetario e la santificazione del modello della banca centrale indipendente, è possibile farsi un'idea, anche solo superficiale, dell'ampiezza delle rinunce di politica economica determinate dal controllo dei mercati. Quelli che in condizioni di normalità sono dei vincoli, in una situazione di crisi si trasformano in incubi. Infatti, la diffidenza degli investitori si manifesta attraverso la vendita dei titoli del debito pubblico, il cui risultato è un aumento dei tassi d'interesse, ovvero del costo del finanziamento degli Stati. Il supplemento di tensioni finanziarie che ne segue può arrivare fino all'imposizione di costi esorbitanti ai bilanci pubblici, come se ne stanno dolorosamente rendendo conto i greci.
La
globalizzazione finanziaria, promossa dagli USA a partire dagli anni Settanta, ha trovato il suo canale di diffusione –e di
infezione– in
Eurolandia proprio grazie a quel processo di integrazione dei mercati finanziari internazionali e di ristrutturazione della
governance delle grandi banche promosso dalle normative europee sotto gli auspici di Washington.
La trasformazione delle banche da enti con finalità di sviluppo economico ad imprese con finalità di profitto; il passaggio da una finanza legata al territorio e caratterizzata nazionalmente, ad una “orientata al mercato”, acquirente e/o distributrice al pubblico di prodotti finanziari anche concepiti all'estero, ad alta redditività/rischio; la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la deregolamentazione finanziaria e lo smantellamento di controlli di politica valutaria e del credito (tra questi il ricorso alla leva delle svalutazioni competitive per alleviare lo stato dell'economia interna); l'affidamento della gestione delle aste di titoli di Stato alle grandi banche internazionali; la cessione della sovranità monetaria e le reciproche (inter)dipendenze finanziarie: sono tutti elementi –e tappe imposte dal processo d'integrazione europea– che non possono essere tralasciati nel capire come è maturata la "crisi" greca, e come (anche) in Italia potrebbe esplodere da un momento all'altro, ad arbitrio degli interessi politici e speculativi
atlantici.
Non è dunque vero che ci vuole più Europa per fronteggiare i mercati; anzi sono state proprio le "regole" imposte dall'Europa che già c'è ad aver permesso lo scardinamento assoluto del sistema di protezioni degli Stati per mano degli speculatori d'oltre Oceano. Quale “insolvenza” avrebbe rischiato uno Stato greco indebitato nei confronti dei propri cittadini piuttosto che degli investitori esteri e dotato della facoltà di battere moneta emettendo
credito sovrano per finanziare il proprio debito pubblico?
Priva di sovranità economica e finanziaria, ed avvitata in una spirale perversa di bassa crescita del PIL ed elevati disavanzi statali, l’Italia si ritrova sempre più tra le braccia di istituti finanziari esteri a dominanza statunitensi.
Scrollarsi di dosso anche le forme della dipendenza finanziaria ed economica è parte ineludibile di un più ampio progetto nazionale di indipendenza politica da mettere all'ordine del giorno. Non è cosa da niente, certo, ma non ci sono alternative. O la sudditanza (con tutto quel che ne consegue) o la sovranità nazionale (con tutto quel che ne consegue). O la barbarie o il socialismo.
Indipendenza
11 luglio 2011