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 Calvino, l’utopia della sintesi

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tadiottof




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Calvino, l’utopia della sintesi Empty
MessaggioTitolo: Calvino, l’utopia della sintesi   Calvino, l’utopia della sintesi Icon_minitimeMar Ott 27 2009, 21:57

Scusate il copia incolla ma e' troppo bello per non farvene partecipi.

Italo Calvino era comunista: commovente il suo racconto "La giornata di uno scrutatore".
Il padre Mario e la madre Eva Giuliana Mameli furono agronomi dei Governi dell'America Centrale dal 1910 al 1925.
Italo nacque a Santiago dell'Avana nel 1923.
La biografia di Mario Calvino e' raccontata da Tito Schiva in "Vita di Mario Calvino. Un rivoluzionario tra le piante" edito da Flortecna.

Testo dell'articolo
Calvino, l’utopia della sintesi tra scienza e letteratura
27 ottobre 2009 | giorgio bertone Il Secolo XIX di Genova pagina 15

MA DA CHE PARTE stava Calvino? Pochi scrittori nella storia hanno accolto con così forte passione, cocciutaggine sistematica, con angoscia persino, la sfida culturale della scienza quanto Italo Calvino. Sempre alle prese, lui, figlio di due scienziati, biologi e botanici, con i risultati di anno in anno più aggiornati dell’astronomia, della fisica, della matematica, dello strutturalismo antropologico.

Tutta la sua opera, almeno dalle “Cosmicomiche” fino a Mister Palomar collezionista di universi, può essere letta come un dialogo continuo con la ricerca scientifica e gli scienziati. Ma, per esempio, in astronomia, qual era la posizione di Calvino? La domanda mi fu posta a bruciapelo da una nota astronoma in occasione di un convegno. Andando a rileggere quel best seller di enorme fortuna che sono le “Cosmicomiche” alla ricerca delle ipotesi cosmologiche utilizzate da Calvino come spunti narrativi, si scovano alcune ambivalenze. Nel racconto “Giochi senza fine” si cita la teoria dello stato stazionario, ovvero quella che sostiene che l’universo non ha inizio. Mentre in “Tutto in un punto”, racconto famoso per la scena della preparazione delle tagliatelle, si ricorre ai calcoli di Edwin P. Hubble sulle velocità di allontanamento delle galassie, da cui la teoria oggi ben nota grazie a un nome che pare uno slogan, il big-bang. Calvino non sceglie. Altrove sì. In un numero del 1968 del “Times literary supplement” Roland Barthes aveva sostenuto che la letteratura offre un linguaggio che ha coscienza di sé stesso, mentre la scienza fa del linguaggio uno strumento neutro; e concludeva paradossalmente che la letteratura è più scientifica della scienza perché sa che il linguaggio non è mai innocente.

Molto più abituato ad aggirarsi nei libri scientifici, Calvino obiettò che non è poi così vero che la scienza possa essere definita in base alla sua fiducia in un linguaggio referenziale assoluto, ossia che si riferisce direttamente all’oggetto, sicura di poterlo descrivere: la scienza mette sempre in discussione il proprio codice, il proprio linguaggio. A questo punto avanzò il modello che aveva già pronto: Galileo Galilei. Come si era già accorto Leopardi che aveva parlato di “precisione ed eleganza”, Galileo non usa il linguaggio come un attrezzo neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica. Specialmente quando parla della luna.

Fra le tante, una questione cruciale a un certo punto attanagliò Calvino. Lo stranoto libro di Jacques Monod, “Il caso e la necessità” (1970; guarda un po’, citato polemicamente qualche settimana fa da Papa Ratzinger) poneva un universo dominato dal caso indifferente a ogni finalità e dalla rigida necessità fisica e biologica. Ne scaturiva per Calvino una “fiera e disincantata solitudine dell’uomo, straniero nell’universo”, una sua “tragica dignità”. A questo punto entra in scena Ilya Prigogine, premio Nobel per la chimica, con il suo “La nuova alleanza” (1980).

Nel suo libro complesso e affascinante Prigogine contrappone la scienza classica che pensava la natura come un meccanismo semplice e reversibile alla concezione della scienza moderna, dominata dall’idea di complessità e di irreversibilità. Soprattutto a partire dalla definizione di entropia formulata nel 1865 da Clausius. Una parola, entropia, presa in prestito dalla termodinamica, e divenuta di uso comune e metaforico. Lo spettacolo delle caldaie rosseggianti dei treni a vapore di allora ispirò l’idea del non ritorno: nessuna macchina termica restituirà al mondo il carbone che ha divorato. Tantomeno la foresta che generò quel carbone. O, se preferite, ecco l’esempio di entropia fornito con il suo stile da Woody Allen nel suo ultimo film “Basta che funzioni”: il dentifricio, una volta uscito dal tubetto, non vi rientrerà mai più. Certo, l’idea di Clausius proponeva un concetto di tempo come degradazione. Di per sé una visione tragica che ha influenzato molto il nostro immaginario sempre pronto a trasformare le formule scientifiche in chiavi d’interpretazione esistenziale e sociologica: dissipazione dell’energia, irrecuperabilità delle condizioni iniziali, evoluzione verso il disordine.

Però, dentro l’universo del “caso e della necessità”, poneva qualcosa di nuovo: una freccia, l’indicazione di una direzione. E attraverso una serrata discussione tecnico scientifica, da laboratorio termodinamico e filosofico (ma chi saprà divulgarla fino in fondo?), Prigogine giunge infine a un terzo concetto di tempo che contiene aspetti sia positivi che costruttivi. Una nuova alleanza tra uomo e natura, tra uomo e universo è possibile. Di fronte a tante formule, anche Calvino si arrendeva.

Al termine, un pilastro rimaneva per lui sempre fermo: se il discorso scientifico tende a un linguaggio formale, matematico, indifferente al proprio contenuto, il discorso letterario tende a un sistema di valori. Insomma: per quanto suadente e rigoroso possa essere il suo verbo, “nessuna morale può essere tratta dalla cosmologia scientifica, tanto meno dalla teoria della relatività”.
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