La “Femmina accabadora”: un angelo della morte
Un antico costume sardo di eutanasia ante litteram
Aprile 2007 pag 24
Saranno stati i Fenici o forse gli Etruschi;
oppure, più probabilmente, i Cartaginesi,
che duemila anni fa, sbarcando in
Sardegna, vi introdussero l’usanza - o quanto
meno l’effettuabilità - di sopprimere i malati
senza rimedio e i vecchi ai limiti della sopravvivenza;
ma qualunque ne sia stata l’origine
sta di fatto che ancora recentemente, a metà
del novecento, era pratica in uso - sia pure
sporadica- nella parte centro-settentrionale
dell’isola: ne sono documentati due casi, 1929 e nel 1952, senza alcuna incriminazione in quanto non ritenuti reato.
La storia e la dettagliata descrizione di questa
antica consuetudine è contenuta in una interessante
pubblicazione dell’editrice “Scuola
Sarda”, dal titolo “Eutanasia ante litteram in
Sardegna. Sa femmina accabadora”. Ne sono
autori due medici dell’Università di Sassari,
Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano.
Nel museo Etnografico “Galluras” che si trova
a Luras, vicino a Tempio Pausania, insieme
agli arredi e agli strumenti di lavoro locali raccolti
dal 1600 ad oggi, ne esiste una particolare
documentazione. Si tratta di un robusto
martello di olivastro stagionato, lungo una
trentina di centimetri, chiamato “mazzolu” o
“mazzola”, recuperato in uno stazzo della
zona; era questo lo strumento impugnato
dalla “femmina accabadora” per porre fine
alle pene dei moribondi. Anche nel Nuorese e
nel Campidano erano usati strumenti consimili,
indicati col nome di “mazzoccu” o di “mazzocca”.
L’angelo della morte entrava nottetempo nella
stanza del malato, su invito dei parenti, che
aspettavano oltre la soglia; con un colpo ben
assestato sul centro della testa ne provocava
il decesso, e poi usciva in punta di piedi, pronunciando
una specie di preghiera: “Deu ci
sia”, cioè “Dio sia qui”. Era una specie di rito,
di sapore quasi religioso e con intenti umanitari;
l’operatrice non chiedeva alcun compenso
e si accontentava della riconoscenza di
tutta la famiglia.
In fondo si considerava una levatrice al contrario,
che non aiutava a nascere ma a morire;
o a rinascere nella vita eterna.
Il termine “accabadora” potrebbero essere
derivato dallo spagnolo “acabar” che può
essere tradotto come “porre fine” o, più
comunemente, come “dare sul capo”.
Su questo argomento aveva già scritto, nel
1832, un autore sardo, Vittorio Angius; ed
anche ben prima, nell’antichità, Zenodoto ed
il grande drammaturgo Eschilo.
Un’altra modalità di sopprimere i vecchi
ammalati è descritta da Giovanni Lilliu a
Gairo, nel Nuorese, esiste una specie di Rupe
Tarpea dove venivano condotti gli incurabili.
A questo punto sembra necessaria una riflessione
che parta dalla realtà socio-culturale dei
piccoli paesi delle montagne sarde, allora privi
di assistenza medica e costretti alle dure
necessità di una vita primitiva; una realtà di
povera gente, dove un sentimento naturale di
compassione verso le persone sofferenti
senza possibile rimedio poteva indurre a decisioni
crudeli. E’ una dimostrazione storica, in
ultima analisi, di una sensibilità umana verso il
dolore dell’agonizzante e del desiderio di porvi
fine comunque, superando le remore affettive,
psicologiche ed anche religiose che certamente
saranno emerse.
Quindi alla radice di questa vicenda c’è pur
sempre il difficile tema dell’eutanasia, dove
tuttora si avanza a tentoni nel dibattito tra chi
sostiene l’opportunità di una chiarificazione
legislativa - già impostata in alcune nazioni
europee - e chi oppone un rifiuto radicale a
prendere in considerazione il problema, in
nome della sacralità della vita e dell’obbligo
del medico di preservarla fino al suo naturale
compimento. Nella complessa evoluzione del
pensiero etico-professionale è sempre più
rilevante lo spazio conquistato dalle possibilità
tecnologiche di protrarre la sopravvivenza,
valutandone le piene qualità vitali; è affidata
al rapporto tra medico ed assistito ogni decisione
nel merito. Molto spesso la scelta è difficile,
coinvolgendo le problematiche confinanti
del testamento biologico e dell’accanimento
terapeutico. Di una cosa, comunque,
possiamo essere certi: qualunque sia la possibile
futura impostazione legislativa non verrà
riesumato dal museo di Luras il crudele mazzuolo
della “femmina accabadora”.
firmatario dell'articolo Silviano Fiorato