Europee, maggio 2014. Riflessioni elettorali
Le elezioni europee, mai come questa volta, sono state caricate di significati simbolici sul piano mediatico. La cosa potrebbe non stupire, se pensiamo alla crisi –ormai sempre più drammatica nelle sue conseguenze sociali– che colpisce svariati paesi dell’eurozona, in forma più acuta quelli della periferia (i cosiddetti PIIGS, quindi, ma non solo). Colpisce però che l’enfasi sul voto arrivi non solo e non tanto da forze “antagoniste” e/o euroscettiche, o anche solo blandamente eurocritiche, quanto piuttosto dai campioni dell’europeismo in salsa liberista e atlantica.
Per contrastare le critiche –non sempre puntuali, va detto– nei confronti della moneta unica e delle istituzioni europee, sono state messe in campo risorse economiche non trascurabili e si è fatto ricorso a un utilizzo piuttosto sfacciato di una propaganda discutibile e indigesta, per usare degli eufemismi.
Il messaggio, sintetizzando, può essere riassunto così: l’Europa (l’UE) è un’oasi di progresso, pace, benessere e fuori da essa si ripiomberebbe nelle tragedie del Novecento; chi critica l’UE è un populista, fascista, razzista, ecc.
Ora, se la prima affermazione è facilmente smentibile dai fatti (l’UE non ha portato né pace né benessere) e da un minimo di conoscenza storica (quella che ci rende consapevoli ad esempio che le Guerre Mondiali non scoppiano perché esistono i famigerati Stati nazionali, ma a causa di uno scontro inter-capitalistico e inter-imperialistico tra potenze), la seconda si dimostra non del tutto falsa. Se è vero infatti che in alcuni Paesi le posizioni più coerentemente critiche verso UE ed euro sono portate avanti da forze di sinistra, è altrettanto vero che in molti altri, tra cui purtroppo l’Italia, tali istanze sono state fatte proprie in maniera più convinta da forze politiche di chiara matrice destroide e populisteggiante nell’accezione negativa (Lega e Fratelli d’Italia).
Le ragioni per non cadere nel tranello e accordare ad esse il proprio voto di protesta sono essenzialmente tre: in primis il loro evidente opportunismo politico, visto che per anni hanno –da posizioni di governo– votato a favore di molti Trattati e misure che ora criticano; in secondo luogo il gattopardismo della loro proposta politica, che si ferma all’uscita dalla moneta unica e al recupero della sovranità monetaria, senza però mettere in discussione l’appartenenza alla UE e al blocco geopolitico atlantico, né le connesse politiche economiche liberiste; infine perché un successo elettorale di queste forze non farebbe altro che tramutare in realtà quella propaganda che vuole l’antieuropeismo appannaggio esclusivo delle destre. In questo modo infatti lo si rende innocuo, sia dal punto di vista del consenso (privandolo a priori dell’appoggio di quella fascia di elettorato che si riconosce nella sinistra), sia dal punto di vista politico (anche nell’ipotesi di una fuoriuscita si tratterebbe di cambiare tutto per non cambiare nulla).
In Italia tuttavia manca un’opzione politica “di sinistra” anche solo blandamente anti-UE, dato che la lista che appoggia Tsipras proclama il suo europeismo di principio pur professandosi contro le politiche d’austerità (condannandosi così all’impotenza politica, se non al ruolo di stampella dei socialisti europei, qualora fosse richiesto) e che il CSP-Partito Comunista (le cui posizioni chiaramente anti-UE e anti-NATO non sono comunque aliene da elementi di criticità, dovuti a un eccessivo dogmatismo e settarismo) ha visto rifiutata la propria candidatura per via di problemi legati alla raccolta firme.
Vi è poi il Movimento 5 Stelle, che è percepito dai più come una forza anti-europeista, sebbene le sue posizioni sul tema risultino alquanto timide e contraddittorie. La sua natura di forza “piglia-tutto” sul piano elettorale impedisce infatti di schierarsi in maniera netta su molti temi, per ragioni di mero “marketing elettorale”. È tuttavia una scelta destinata a non poter durare all’infinito: più passa il tempo e più la domanda di risposte che vadano oltre i soliti proclami contro la casta e i vecchi partiti si rende necessaria, e a tal fine occorre costruire un progetto politico. Ciò porterà inevitabilmente o alla perdita di una parte di consensi (ma potrebbe farne guadagnare altri) oppure a qualche inevitabile scissione, dovuta all’attuale compresenza di anime forse troppo diverse all’interno del movimento. L’alternativa sarebbe continuare su questa strada, con la prospettiva però di perdere progressivamente tutto quanto ottenuto sino ad ora.
Alla luce di questo, un eventuale consenso accordato al M5S, se pure non produce una risposta politica chiara e connotata, lascia però aperte le porte a futuri sviluppi che potrebbero essere “anche” positivi. Al contrario, il voto a Lega e FdI, si rivela assai poco lungimirante sul piano politico, perché andrebbe nella direzione di regalare più o meno irreversibilmente alle destre certe istanze (scenario francese o ungherese, tanto per fare due esempi) e quindi portare acqua a vie d’uscita gattopardesche e ugualmente nefaste per le classi popolari. Infine un voto a Tsipras e alla Sinistra Europea non farebbe che puntellare il processo d’integrazione e le sue politiche, con buona pace dei proclami anti-austerità, destinati a rimanere nel libro dei sogni.
Vi è anche l’opzione astensionistica, le cui motivazioni possono essere essenzialmente tre: da un lato l’esigenza di non legittimare le istituzioni europee; dall’altro lato le scarse ricadute pratiche del voto, dato che il parlamento europeo ha poteri e competenze assai limitate, a conferma del carattere anti-democratico della UE; per finire, l’assenza di forze politiche da cui sentirsi anche solo parzialmente rappresentati.
In merito alla prima motivazione occorre rilevare che una scarsa percentuale di votanti storicamente non mette a repentaglio il funzionamento delle istituzioni (basti pensare agli USA, che vengono –non senza senso del ridicolo– continuamente definiti “la più grande democrazia del pianeta”, nonostante bassissime percentuali di votanti, spesso inferiori al 50% del corpo elettorale) e un sistema rigidamente bipartitico e privo di reale pluralismo.
Non va inoltre dimenticato che la scelta di concorrere elettoralmente per un seggio in istituzioni che non si riconoscono può rispondere ad esigenze tattiche e non preclude nulla all’opposizione verso le stesse. Basti pensare, a tale riguardo, a diversi movimenti di liberazione di nazioni senza Stato, i quali spesso hanno presentato i propri candidati alle elezioni parlamentari dello Stato da cui intendono affrancarsi.
C’è poi da dire che, al netto degli scarsi poteri dell’europarlamento (peraltro aumentati, sia pure limitatamente, col Trattato di Lisbona), non va sottolineata la portata simbolica di questo voto e le sue ricadute politiche nell’ambito dei singoli Stati.
Infine occorre tenere presente che, a seconda delle circostanze date, il voto può non essere solo ed esclusivamente un voto d’opinione, ma si possono fare scelte di tipo tattico. Nel caso specifico, oltre alla possibilità (che non è una certezza, sia chiaro) di futuri sviluppi interessanti del percorso politico di almeno una parte del M5S, va tenuto presente che una sua affermazione probabilmente contribuirebbe in maniera decisiva ad affossare l’Italicum (un progetto di legge elettorale la cui anti-democraticità e la cui incostituzionalità raggiungono livelli assai pericolosi) e più in generale indebolirebbe il governo Renzi.
Dal momento che auspichiamo e lavoriamo per la nascita in Italia di un movimento politico di liberazione nazionale e sociale, può forse valere la pena fare tutto il possibile affinché esso possa operare in uno scenario il meno ostile possibile, fosse anche (in questo passaggio di fase) sul solo piano elettorale (vedi legge elettorale), oltre che –come già detto– su quello politico-culturale (scongiurare la ferrea identificazione di ogni rivendicazione sovranista con le destre).
"Indipendenza"