Mali. Un paese con le più significative riserve mondiali di uranio, oltre che di oro, petrolio e gas, e tra i più poveri del pianeta, nel mirino di chi sta perseguendo il progetto di una allettante prospettiva di sfruttamento dell’energia solare in tutto il Sahel. Un paese da moltissimi anni sotto la "tutela" dei disastrosi piani di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale, che hanno determinato solo grossi vantaggi per le multinazionali (particolarmente francesi, statunitensi e tedesche) presenti.
Un'altra guerra d'aggressione occidentale, euroatlantica, con la Francia del 'socialista' Hollande che bombarda a tutela dei propri interessi coloniali (innanzitutto l'uranio, necessario per centrali, sottomarini e testate nucleari), interessi convergenti e conflittuali con quelli degli Stati Uniti e, in subordine, della Germania. Giacimenti di uranio situati proprio nel nord dove l'aggressione è in corso.
Gli Stati Uniti possono contare sia su Africom (l'Africa Command, formalmente attivo dall’ottobre 2008, responsabile di operazioni e relazioni militari con 53 paesi di tutta l’Africa, tutti meno l'Egitto), sia sul “Trans Sahara Counter Terrorism Initiative” (almeno 2mila uomini), voluto dall’amministrazione Bush con operazioni militari annuali in Sahel, includendo contingenti di Canada, Francia, Paesi Bassi, Spagna, Mali, Mauritania, Burkina-Faso, Ciad, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal. In questa fase, con altre denominazioni ed organigrammi, la NATO è già presente sul terreno.
Una guerra giustificata con il pretesto della "lotta al terrorismo", contro formazioni armate islamiste wahabite filo/qatariote e filo/saudite, che in Mali vengono combattute (come in Afghanistan), mentre con le stesse si è stati alleati in Libia contro la Jamāhīriyya e Gheddafi, e si è alleati in questa fase per rovesciare le autorità legittime della Siria, un altro Stato non prono agli interessi geopolitici euroatlantici nell'area.
Nell'interessato interventismo statunitense nell'area c'è il conflitto, per ora non militarmente aperto e diretto, con la Cina. Washington mira a contrastare l’espansione delle relazioni sino-africane a costo di destabilizzare tutto il continente. La presenza di Pechino si è imposta all'attenzione generale nel gennaio 2006, quando il governo cinese pubblica un documento programmatico (“La politica della Cina in Africa”) che contorna a grandi linee l’ampiezza dei suoi interessi nel continente nero. Agli inizi di novembre dello stesso anno, Pechino ospita il vertice Cina-Africa, con 48 tra capi di Stato e di governo di tutti i paesi con i quali intrattiene rapporti. Per la crescita continua della propria economia, Pechino ha bisogno dell'Africa: "in uscita" (immense ricchezze naturali africane) ed "in penetrazione" (immensa area commerciale in cui riversare i suoi manufatti). In tal senso ha stretto rapporti bilaterali in ragione della specifica ricchezza di ogni singolo paese, accompagnandoli con grandi investimenti in infrastrutture: dai ponti alle dighe, dagli impianti idroelettrici alla realizzazione di oleodotti strade e ferrovie, dalle telecomunicazioni (telefonia cellulare) alla costruzione di stadi e palazzi statali.
Gli Stati Uniti e, in particolare tra i paesi europei, la Francia, finora meno attenti all’avanzata della Cina nel continente africano, si sono resi conto del cambiamento degli equilibri geoeconomici e geopolitici in Africa, della loro valenza sullo scenario globale, ed hanno riattribuito un peso politico ed economico a questo continente, dopo anni di oblìo.
All'interno di questo quadro generale è maturata l'aggressione militare in Libia e permane la sudditanza dell'Italia che, con il governo Monti, dimissionario, per bocca del suo ministro degli Esteri, Terzi, annuncia il proprio sostegno militare logistico nell'ambito della missione dell'Unione Europea di "addestramento dell'esercito del Mali", la nuova dizione dell'interventismo aggressivo militare. Servili all'imperialismo, non si esita a profondere ulteriori fondi nel mentre si tagliano le spese sociali e si aumentano le tasse. Una ragione in più per liberarsi dall'Unione Europea e, quindi, dalla sudditanza verso gli Stati Uniti.