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 GIOVENTÙ BRUCIATA (dossier su giovani e lavoro)

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Gaspare Serra




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MessaggioTitolo: GIOVENTÙ BRUCIATA (dossier su giovani e lavoro)   GIOVENTÙ BRUCIATA (dossier su giovani e lavoro) Icon_minitimeLun Nov 12 2012, 19:15

DALLA “BEAT” ALLA “NEET” GENERATION
Saranno forse “non + disposti a tutto” -ricalcando un noto slogan sindacale- ma i giovani italiani dovranno al più presto farsi le ossa per crescere in un Paese di “lupi travestiti d’agnello”, pronti a sbatterli sommariamente sul banco degli accusati.

Al bando ogni senilismo demagogico o giovanilismo di comodo, è solare che sia facile scovare, nel mucchio dell’intera “generazione Y” nata a cavallo tra gli anni ‘80 e ’90, adolescenti viziati e menefreghisti, pronti a prendersela col mondo intero pur di non assumersi le proprie responsabilità; studenti parcheggiati all’università, che preferiscono vivere di rendita piuttosto che cercarsi un lavoro; giovani fannulloni impiegati nella pubblica amministrazione i quali, conquistato il “posto fisso”, ripongono il minimo impegno nel proprio lavoro.
Di “mele marce” se ne trovano in qualsiasi paniere: chi fa politica, anzi, ha meno autorità di chicchessia nel dare lezioni di morale…

Esiste, però, un’Italia “per bene” di cui andare fieri: una “meglio gioventù”, silenziosa ma pur sempre maggioritaria, che tutti i giorni si fa in quattro per formarsi al meglio nelle nostre università, per mantenersi in qualche modo negli studi o per farsi strada nel mondo del lavoro puntando sulle proprie forze.
È accettabile, allora, che lo sport nazionale preferito da certi politici -ultimamente praticato con successo anche dai tecnici- sia divenuto il “tiro al bersaglio dei giovani”, una gara senza regole ad offendere, umiliare, bistrattare un’intera generazione (ieri sconsideratamente cresciuta a “pane e televisione”, oggi maldestramente rabbonita con “bastoni e carote”)?

Il ministro del Lavoro ha esortato i giovani ad “accontentarsi” nella ricerca di prima occupazione.
Il vero problema, semmai, è che ci si accontenta fin troppo: i più non sono affatto “schizzinosi”, né nella ricerca del primo né del secondo, terzo od ennesimo lavoro!
I dati parlano da soli: il 71% dei giovani under 35 è disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, purché remunerato (fonte Cisl), mente il 25% dei laureati si è adatto benissimo a svolgere un’occupazione con bassa o nessuna qualifica oltre il 30% svolge un’occupazione del tutto diversa da quella per la quale ha studiato (fonte Bankitalia).
Chiedere quantomeno d’essere pagati, fosse anche per il più umile mestiere, vuol forse dire esser “choosy”?

Liquidare il problema dei giovani senza lavoro con un “vadano a scaricare le cassette al mercato” (alias Renato Brunetta), poi, è quanto di più banale e demagogico si possa affermare.
Qual è la funzione della Politica?
Preparare sommessamente i giovani “al peggio” oppure tentare di offrir loro opportunità, ricercando qualsiasi soluzione per sciogliere i nodi e lacciuoli che legano il mercato del lavoro e bloccano l’economia?
Invitarli a competere con la manodopera rumena e la manovalanza tunisina o stimolarli a misurarsi con i giovani ingegneri indiani e i nuovi imprenditori cinesi?
Se s’inculca nei giovani la convinzione che il lavoro serva soltanto a guadagnarsi da vivere e “portare a casa lo stipendio”, non anche a realizzarsi e mettere in campo le proprie capacità, come stupirsi del fatto che i laureati diminuiscono sempre di più, mentre crescono gli inattivi e gli sfiduciati?
Se s’inibisce nei giovani finanche la capacità di sognare un futuro migliore, che ne sarà di loro?

L’impressione è che, dietro queste ripetute “gaffe”, si celi una strategia ben mirata: la ricerca dell’“alibi perfetto” per sottacere le gravi responsabilità di un’intera classe dirigente nell’affrontare i problemi della mancanza di occupazione, crescita e sviluppo, che certo non dipendono solo da fattori esogeni (l’assenza di un’Europa politica, la crisi finanziaria internazionale o la congiuntura economica sfavorevole).

Un esempio chiarificatore?
Tra il 1999 ed il 2007 l’Italia ha beneficiato del c.d. “dividendo dell’euro”, ovvero di bassi tassi d’interesse sul debito pubblico che hanno consentito di risparmiare centinaia di miliardi (secondo alcuni economisti, addirittura “100 miliardi” di euro all’anno).
Un enorme “tesoretto” che, se oculatamente speso in politiche d’investimento e affiancato da riforme strutturali, avrebbe consentito all’Italia di essere tra i paesi più virtuosi d’Europa, piuttosto che tra gli stati “pigs” citati come modello negativo persino nella campagna elettorale americana.
Di chi la responsabilità se l’Italia negli anni Duemila ha “dilapidato” queste risorse?
Se in capo ad ogni italiano grava un debito pubblico di oltre “30.000 euro”, in termini assoluti il terzo al mondo (tra il 1950 e il 1969 la media del debito pubblico in rapporto al Pil era del 30%, oggi ha sfondato quota 126%)?
Se la spesa pubblica è lievitata a dismisura (nel 1950 si attestava sotto il 25% in rapporto al Pil, oggi supera il 50%)?
Se la pubblica amministrazione è divenuta un ente erogatore di stipendi, piuttosto che di servizi (Sicilia docet)?
Se il nostro regime tributario è il più opprimente al mondo (nel 1951 la pressione fiscale era del 18,2%, oggi supera il 55%)?
Se i costi del lavoro e dell’energia sono nettamente più alti della media europea?
Se le ultime grandi imprese italiane (vedi la Fiat) e le poche multinazionali straniere presenti (vedi l’Alcoa) pagherebbero penali pur di delocalizzare?
Se la corruzione ci costa “60 miliardi” di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale il doppio?

Di chi la responsabilità se l’Italia si è ridotta ad un Paese “a corto di futuro”, con il cappio al collo del debito e la pistola dei mercati alla tempia?
Tutto questo è forse imputabile ai giovani che solo oggi si affacciano sul mercato del lavoro, magari illusi che il mondo reale non fosse poi così distante da quello rappresentato da “mamma Tv”?
È colpa dei giovani italiani se un loro coetaneo su tre è senza lavoro?
Se la loro generazione è divenuta “precaria” per antonomasia?
Se l’ingresso nel mercato del lavoro solitamente passa attraverso la scorciatoia obbligata di un’occupazione in nero e senza tutele?
Se il mondo delle professioni è chiuso a camera stagna da caste autoreferenziali, mentre il mercato del lavoro è drogato dal precariato?
Se gli stipendi degli italiani sono in media i più bassi d’Europa, per molti insufficienti a garantire una piena indipendenza economica dalla famiglia d’origine?
Se molti di loro -i migliori o i più audaci- preferiscono scappare all’estero piuttosto che accontentarsi di un lavoro tanto dequalificato quanto malpagato?
Su un punto ha perfettamente ragione il viceministro Martone: essere giovani in Italia vuol dire aver ricevuto in dote dalla sorte una “sfiga” pazzesca!

A chi il compito di indicare una qualche via d’uscita, “una luce in fondo al tunnel”?
A una classe politica “novecentesca”, la stessa che fin oggi ha scavato la fossa sotto i piedi dei propri figli?
Ad un governo tecnico -il più sobrio degli ultimi 150 anni- che, definendo “perduta” la generazione dei 30/40enni (alias Mario Monti), ha già giudicato spacciati un quinto dei cittadini che rappresenta?
Che futuro può avere un Paese che, piuttosto che riconoscere i giovani come un “organo vitale” del Sistema, li liquida sbrigativamente come un “arto in cancrena” da amputare per salvare il resto del Corpo sociale?


Trovi il testo completo del dossier “Gioventù bruciata” sul blog Panta Rei:
http://gaspareserra.blogspot.it/2012/11/gioventu-bruciata.html
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sankara

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MessaggioTitolo: Re: GIOVENTÙ BRUCIATA (dossier su giovani e lavoro)   GIOVENTÙ BRUCIATA (dossier su giovani e lavoro) Icon_minitimeGio Nov 22 2012, 02:12

Ciao Gaspare,

ho apprezzato qualche tuo intervento qui sul forum, ma questo tuo ultimo, scusami la schiettezza, mi sembra riproponga alcuni perniciosi luoghi comunismi sui presunti mali principali dell’Italia (debito pubblico-corrruzzziooone-casta) che a mio avviso costituiscono un impedimento ideologico per la piena comprensione di cause e dinamiche del processo di affossamento (non solo) della società italiana.

Analizziamo qualcuno di questi luoghi comunismi, partendo da quello per me più eclatante: «in capo ad ogni italiano grava un debito pubblico di oltre “30.000 euro”». Si tratta di una affermazione “terroristica” che ha costituito e costituisce un grimaldello ideologico per le manovre lacrimogeni e sangue –privatizzatrici e liberticide, imposte dall’Europa– di governi tecnici, centrosinistri e centrodestri di ieri, oggi e domani, con i loro effetti nefasti anche per quella “gioventù bruciata” che giustamente ti sta a cuore. Cerchiamo di capire il perché. Intanto una premessa: quando si parla di debito pubblico, bisogna innanzitutto comprendere in quale valuta è stato contratto e chi ne sono i sottoscrittori. Per semplificare, un debito dello Stato italiano denominato in lire e sottoscritto da “residenti italiani” (famiglie, imprese, banche) non ha affatto la medesima valenza dello stesso ammontare di debito denominato in valuta estera (come di fatto è attualmente l’euro), sottoscritto da “residenti esteri” o addirittura sottoposto ad una legislazione estera (come avvenuto con la ristrutturazione del debito greco).
Considerando le prime condizioni (valuta italiana, acquisto da parte di residenti italiani), il debito dello Stato –vale a dire delle amministrazioni statali, non dei cittadini!– costituisce contemporaneamente un’attività finanziaria per i residenti italiani, sia in termini di valore nominale dei titoli di Stato che di interessi percepiti. Si tratta dell’ABC della contabilità nazionale. Detto con parole più terra terra: se tu avessi un titolo di Stato in mano, ti considereresti indebitato verso lo Stato? Detto in termini più tecnici: in un’economia chiusa, deficit pubblico = risparmio privato; debito pubblico = debito del comparto statale = risparmio del settore privato a livello aggregato, sia che lo Stato emetta titoli, sia che non ne emetta. Per la comprensione di queste dinamiche e di come si muovono i vari settori a livello aggregato può forse essere utile questa applicazione segnalatami da un amico, dove nella parte Choose Operation puoi scegliere che tipo di operazione fare, e vedere come questa agisce sui vari settori: http://econviz.org/macroeconomic-balance-sheet-visualizer/?op=bankloan .

D’altronde non è un caso che i grossi risparmi delle famiglie italiane (quando l’Italia figurava come uno degli Stati a più alto tasso di risparmio privato al mondo) siano stati un prodotto dei deficit di bilancio degli anni Ottanta, quando il rapporto debito pubblico / PIL si impennava per gli alti tassi d’interesse reali divenuti poi superiori alla crescita del PIL stesso. Impennata dei tassi reali, sia detto per inciso, che è stato un prodotto dell’integrazione finanziaria a livello internazionale del sistema Italia: andando a memoria, menziono l’ascesa agli inizi Ottanta dei tassi internazionali promossa dalla politica monetaria USA di Volcker; lo smantellamento delle misure di protezionismo finanziario imposto dall’Atto Unico Europeo e la liberalizzazione dei movimenti di capitale di Maastricht (tra cui il famoso “Divorzio” Banca d’Italia-Tesoro del 1981); il vincolo del tasso di cambio imposto dal Sistema Monetario Europeo, che accrescendo gli squilibri delle Partite Correnti con l’estero doveva adeguare i tassi d’interesse a quelli elevati vigenti sui mercati internazionali per attrarre capitali esteri. Il risultato, detto in due parole, è che sono stati i tassi d’interesse sui titoli di Stato a provocare l’impennata del debito. Se vai a guardare le statistiche su deficit annuale e debito complessivo degli anni Ottanta, infatti, vedi che persino negli anni del Cinghialone Craxi il deficit al netto della spesa degli interessi era in progressivo calo, ciò nonostante la stretta fiscale faceva un baffo all’impennata della spesa per interessi. Da 20 anni a questa parte le entrate fiscali in Italia sono state quasi sempre superiori alla spesa pubblica fuorché per una voce: la spesa per interessi. Detto in altre parole, continuiamo ad indebitarci per pagare gli interessi su quello preesistente!
Fin quando però la sottoscrizione dei titoli e la riscossione degli interessi avveniva a livello interno, il risparmio privato italiano ne beneficiava. È a partire dagli anni Novanta, dapprima con il collocamento dei titoli di Stato tra istituti finanziari esteri, successivamente con la ridenominazione in euro del debito (con una Banca Centrale Europea che non funge assolutamente da acquirente in prima o ultima istanza dei titoli emessi dal Tesoro), che il problema del debito pubblico cambia significato. Da debito pubblico diventa debito estero, con l’Italia che si trova in situazione analoga ai Paesi sudamericani degli anni Settanta e Ottanta.

In ogni caso è del tutto errato paragonare lo Stato indebitato ad un cittadino privato. Uno Stato che si indebita nella propria valuta e con i propri cittadini può essere assimilabile ad un privato cittadino che può indebitarsi con la propria “famiglia” in una moneta stampata con la propria zecca personale ed universalmente accettata come mezzo di pagamento. Inoltre bisogna rendersi conto che se una famiglia dovrà magari stringere la cinghia per ripagare i propri debiti, uno Stato si regge su meccanismi più complessi. E da qui arriviamo ad un’altra affermazione: «Se la spesa pubblica è lievitata a dismisura (nel 1950 si attestava sotto il 25% in rapporto al PIL, oggi supera il 50%». Intanto premetto che nel valutare un rapporto bisogna osservare non solo l’andamento del numeratore, ma anche del denominatore. E ricordo che negli anni Cinquanta il PIL cresceva a tassi d’incremento vertiginosi, al contrario di adesso. Aggiungo poi che la contabilità nazionale non è un’opinione, e che la tanto vituperata spesa pubblica costituisce una delle componenti del famigerato PIL. Se tagli la spesa si riduce anche il PIL, a detta addirittura di economisti del Fondo Monetario Internazionale in misura maggiore dei tagli della spesa stessa. Se si taglia la spesa pubblica e si aumentano le imposte, l’economia si contrae, le entrate fiscali e il PIL diminuiscono, il rapporto tra debito e PIL, invece di diminuire, aumenta, tant’è che con il governo Monti questo rapporto ha raggiunto il record negativo del 126%. Perché il fatto che i governi si impongano di fare politiche di austerità, di abbattere il debito, non solo è pura ideologia e non una reale costrizione, ma è anche del tutto controproducente. Non trovo al momento rappresentazione migliore di questo video per spiegartelo: https://www.youtube.com/watch?v=P1FGkXabhjA

«Se la corruzione ci costa “60 miliardi” di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale il doppio». Anche queste mi sembrano sparate giornalistiche senza tanto fondamento. Chi e come viene quantificata questa corruzione, così come l’evasione fiscale? Ma la corruzione non costituisce una costante della classe politica italiana dal dopoguerra, o forse era inferiore negli anni della Democrazia Cristiana di Andreotti, Fanfani e Forlani? Se guardando agli ultimi 50 anni vediamo da un lato una presenza costante della corruzione ma dall’altro differenze rilevanti nei tassi di crescita del vituperato PIL, così come nella struttura industriale e nei rapporti di lavoro nel Paese, non è che per spiegare quest’ultime bisogna ricorrere ad altre cause, come gli effetti indotti dalle normative europee e dall’euro e nei suoi riflessi in termini di cessione di sovranità? Detto questo, voglio spezzare una lancia a tuo favore. Il fatto che occorra contrastare le privatizzazioni ed i dogmi di abbattimento della spesa pubblica non significa che quest’ultima sia buona a priori e che sia superfluo aprire una discussione su destinazione e scopi. In Italia la spesa è sicuramente inefficiente, e le imposte e tasse non si traducono in servizi. Su questo non ci sono dubbi. E questo sicuramente tocca «le gravi responsabilità di un’intera classe dirigente nell’affrontare i problemi della mancanza di occupazione, crescita e sviluppo». Quello su cui però non concordiamo è il fatto che tu consideri questa classe politica la causa principale e forse unica del degrado socio-economico italiano, mentre a mio avviso la casta politica è semplicemente il gestore (anche ben remunerato) di una politica di subordinazione, asservimento e svendita dell’Italia sicuramente con cointeressenze a livello di subdominanti italiani ma i cui veri mandanti si trovano all’estero, precisamente oltreatlantico. Che stanno spingendo per quella Europa politica la cui «assenza» tu deplori e la cui nascita ci sta già conducendo verso un moderno Medioevo.

«Tra il 1999 ed il 2007 l’Italia ha beneficiato del c.d. “dividendo dell’euro”, ovvero di bassi tassi d’interesse sul debito pubblico che hanno consentito di risparmiare centinaia di miliardi (secondo alcuni economisti, addirittura “100 miliardi” di euro all’anno). Un enorme “tesoretto” che, se oculatamente speso in politiche d’investimento e affiancato da riforme strutturali, avrebbe consentito all’Italia di essere tra i paesi più virtuosi d’Europa, piuttosto che tra gli Stati “Pigs” citati come modello negativo persino nella campagna elettorale americana». Il fantomatico “dividendo dell’euro” di quegli anni è il risultato di una politica monetaria internazionale promossa dagli Stati Uniti che ha abbassato sì i tassi d’interesse a livello internazionale, ma allo scopo di finanziare a basso costo speculazioni varie, sui beni immobili in primo luogo, da cui la ben nota crisi finanziaria scoppiata nel 2008 negli USA ed esportata negli Stati europei attraverso il canale bancario.
Ma di quali politiche d’investimento parliamo poi se la tenaglia di istituzioni e normative europee (pensiamo al Patto di stabilità definito addirittura «stupido» da un ex presidente della Commissione Europea e presidente del Consiglio italiano...) è stata convergente nel provocare deindustrializzazioni, calo degli investimenti e delle esportazioni nell’area europea e promuovere impennate di importazioni dall’area extraeuropea, Cina in primis?
E di quali riforme strutturali vai parlando? Quelle promosse dalla Banca Centrale Europea in una famosa lettera dell’agosto scorso al governo Berlusconi, contenente tra l’altro ulteriori diktat per la precarizzazione del lavoro, in sintesi ulteriori mazzate (non solo in senso metaforico, come mostrano le cronache di questi giorni) verso quella “meglio gioventù” bersagliata come ben evidenzi da questi scandalosi ministri “tecnici”?
Pensi che le riforme imposte dall’Europa risolveranno il problema dell’ingresso «nel mercato del lavoro (...) attraverso la scorciatoia obbligata di un’occupazione in nero e senza tutele?»?
Credi veramente che precarizzare le condizioni di lavoro, quello che tu definisci «sciogliere i nodi e lacciuoli che legano il mercato del lavoro», rilancerà sul serio l’economia?
Non ti rendi conto delle contraddizioni? È da decenni che il nostro Paese è oggetto di “riforme strutturali” cosiddette neoliberiste che ci hanno portato al rango di “PIGS”, con la compiacenza dei centri di potere USA. Da questa sudditanza occorre liberarsi, caro Gaspare. Il servilismo di questa classe politica sta portando «in cancrena» non solo i giovani ma un intero Paese. E a chi accenni a lamentarsi, magari offrissero qualche «carota», sempre qualcosa con i tempi che corrono. Fino ad ora hanno fatto vedere solo i «bastoni». Cerchiamo pure questa «luce in fondo al tunnel», a patto di imboccare il tunnel giusto per la liberazione. Altrimenti anche «scaricare le cassette al mercato» sarà un lusso che pochi si potranno permettere...
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